Il Barone geniale che diceva: «La Roma? Falcao e altri 10»
Osannato sul campo e in panchina, lo svedese è leggendario anche per la sua ironia «L’allenatore è il mestiere più bello del mondo, peccato che ci siano anche le partite»

Nils Liedholm
(di Cesare Lanza per LaVerità) G r e-N o-L i! Una sigla ben nota ai tifosi di calcio di una certa età: provoca ricordi, emozioni e nostalgie. Ai lettori giovani invece non dirà un bel niente: è passato tanto tempo. Dunque la spiego: è la contrazione dei cognomi di tre campionissimi di calcio, che furono acquistati dal Milan negli anni Cinquanta del secolo scorso. Gunnar Gren, Gunnar Nordahl, Nils Liedholm: mezzala destra, centravanti, mezzala sinistra. Tre svedesi, molto diversi. Il primo, Gren, un tessitore infaticabile a centrocampo. Il secondo, Nordahl, era una belva, uno sfondatore potente, incontem: mezzala destra, centravanti, mezzala sinistra. Tre svedesi, molto diversi. Il primo, Gren, un tessitore infaticabile a centrocampo. Il secondo, Nordahl, era una belva, uno sfondatore potente, incontenibile in attacco. «Una volta, a Palermo, Gunnar parte dalla nostra area e poi colpisce di collo», raccontò Liedholm. «Bene, il pallone s’incastra all’incrocio dei pali. Per tirarlo giù, hanno sollevato il loro portiere che, faticando, lo ha strappato via». Il terzo, Liedholm, era uno dei più geniali registi mai ammirati sui campi di calcio. «Un giorno a San Siro tirai fortissimo, colpii la traversa e il pallone ritornò nella nostra area», ricordò la mezzala in una intervista. Ma non era la forza fisica la sua qualità principale, bensì la straordinaria visione di gioco. Ero un bimbetto ed ebbi la fortuna di vederlo giocare.
Dopo 70 anni mi è ancora impressa nella memoria questa meraviglia. Liedholm era nella sua metà campo, gli passarono un pallone alto. Lui lo colpì al volo e, quasi fosse un architetto, lo mise sui piedi di Nordahl – appostato nell’area avversaria, decine di metri più avanti mettendolo in condizione di segnare un facile gol. Le prodezze del calcio non appartengono ad alcuna fazione: sono di tutti, universali. Il Milan venne a giocare contro il “mio” Genoa a Marassi e lo batté 8-0, la più catastrofica sconfitta di sempre dei rossoblù. Eppure ancora adesso ricordo con ammirazione illimitata i campioni milanisti. Più avanti negli anni, prima da giornalista sportivo e poi da direttore, incontrai varie volte Liedholm. Era un mito come calciatore e fu straordinario anche come allenatore. Un uomo affabile, ironico, educato, gentile. Mai uno scatto di nervi o una parolaccia. Amava le sintesi, i paradossi. «La Roma è Falcao e dieci altri», mi disse quando la squadra capitolina, dopo 41 anni e sotto la sua guida, tornò a vincere lo scudetto. Esaltava in quel modo il valore, l’importanza determinante di quell’asso brasiliano, che illuminava tutta la Roma, pur ricca di altri calciatori di qualità. Altre volte le sparava grosse, tranquillamente, come se fossero ovvietà. «Scarnecchia è un campione». «Antonelli è il nuovo Cruijff». «Strukejj è più forte jogadore di mondo». E della sua qualità di calciatore era pienamente consapevole. «Un giorno sbagliai un passaggio, non succedeva da due anni e tutto lo stadio fece un “ooh” di meraviglia». Aveva idee semplici, memorabili: almeno per tutti coloro che amano il calcio. «Il possesso di palla è fondamentale: se riuscissi a tenere il pallone per 90 minuti, saresti sicuro che l’avversario non segnerà mai un gol». Oppure: «Gli schemi sono belli in allenamento: senza avversari riescono tutti». Ma anche: «Si gioca meglio in dieci contro undici». 0 addirittura: «È meglio un asino zoppo che u n cavallo sano». Le sue squadre praticavano un gioco di attacco piacevole ed elegante e tuttavia, come Gianni Brera e l’antico vate Annibale Frossi amavano dire: «La partita perfetta è quella che finisce o-o». Perché i gol nascono quasi sempre dagli errori dei calciatori. L’ironia era sempre l’ispirazione del suo linguaggio. «Gaiderisi si lamenta perché non gioca? Non deve preoccuparsi, lo considero un fuoriclasse, ma a volte anche i migliori devono sedere in panchin. Guardate Nuciari: da quattro anni è il miglior portiere italiano, eppure non gioca mai».
Potrei proporvi una collezione infinita delle sue battute. Per tutti era un piacere parlare con lui: si distingueva dal circo di ciarlatani, mitomani e presuntuosi che hanno sempre infestato stadi e spogliatoi. «L’allenatore di calcio è il più bel mestiere del mondo, peccato che ci siano le partite». «I calciatori? Mi preoccupano un po’ solo quelli innamorati o fidanzati. Chi ha già famiglia non ha sbandamenti, non ha alti e bassi di rendimento». La sua tattica esemplare di calcio è ben nota, impareggiabile per la semplicità: «È la palla che deve correre, non noi. La palla non suda, i calciatori sì. La palla non fa fatica, i calciatori sì: basterebbe far correre la palla». Amava scherzare, anche su se stesso: «Io schiero la mia squadra in modo perfetto. Il problema è che quando l’arbitro fischia l’inizio della partita i giocatori si muovono». Ma non sempre era scherzoso. A volte si lasciava andare a confidenze personali, intime. Sull’indispensabile necessità dello spirito di sacrificio, ad esempio, per affermarsi nella vita. «Quando ero giovane dicevo che dovevo vivere da vecchio e ci sono perfettamente riuscito. Non era però una vita umana e sarebbe pazzesco pretenderla dai giocatori d’oggi. Se avevo voglia di fare all’amore mi dedicavo a letture di psicologia e i desideri passavano. Dopo aver lavorato cinque giorni la settimana, al sabato non andavo neanche a ballare. Avevo sempre il calcio nel cervello. Una malattia. Da casa a scuola erano sette chilometri. Ebbene, da ragazzino, li percorrevo a piedi, dietro un sasso che colpivo ripetutamente coi due piedi. Sempre la stessa cosa, per sette chilometri».
Ricordo un vecchio articolo di Luigi Garlando sulla Gazzetta dello Sport, nel quale Liedholm giovane raccontava: «Ero impiegato nello studio di un avvocato, mi occupavo di tasse. Mio padre era orgoglioso di poter avere in casa un futuro esperto fiscale. Ma sognava l’irrealizzabile. Di sera mi allenavo coi campioni di Bandy, una sorta di hockey su ghiaccio violentissimo. Dagli scontri uscivo pesto e sanguinante. Mi sono rafforzato così. Il fiato l’ho accumulato coi fondisti dello sci. E la mattina presto andavo al campo: due ore di porta a porta palla al piede, a velocità sostenuta, intervallata da scatti violenti». Interessanti anche i suoi giudizi su allenatori e giocatori: «Di Ancelotti ricordo soprattutto le urla di dolore, quando in spogliatoio gli manipolavano il ginocchio operato mentre noi ci allenavamo, alla Roma. Quel dolore lo ha reso più forte. Anche contro le critiche che ha sopportata Avevo dei dubbi, invece il ragazzo si è dimostrato più guerriero di quel che pensavo».
Su Zlatan Ibrahimovic: «Una volta ero a Norrkòping con mio figlio. Volevamo andare a vedere Zlatan che giocava in serie B. Ne parlavano un gran bene. Ci fermò un contrattempo. Il giorno dopo leggemmo che aveva sputato agli avversari. Era il capo di una banda di strada a Malmò. Ora mi dicono che è migliorato. È bravo». Altri ricordi delle sue idee sul calcio: «Non si deve criticare solo il catenaccio. Ci si difende anche a centrocampo, con mille falli tattici. Io ripetevo ai miei giocatori: se fai fallo, sbagli due volte. La palla resta a loro e mandi un messaggio di debolezza».
Nel Settantanove-Ottanta «vincemmo la coppa Italia, dopo aver battuto 4-0 il Milan a San Siro, nei quarti. Se Rivera quel giorno disse: “Potevo sperare solo nella nebbia” significa che la mia Roma giocò proprio bene. Avevo un gran gruppo. Avevo Ancelotti. C’era Novellino, sedeva vicino a me in panchina, parlava sempre: segno che sarebbe diventato un buon allenatore». Sette giorni dopo la sconfitta in finale di coppa Campioni col Lìverpool, «affrontammo il Milan all’Olimpico. Ci aspettavamo lo stadio vuoto, trovammo invece 60.000 ad applaudirci. Quella passione ci diede la carica per vincere la finale di coppa Italia contro il Verona di Osvaldo Bagnoli». Ha raccontato che gli telefonavano in tanti per salutarlo: «Ha chiamato Fabio Capello, ha chiamato Ancelotti. Con Carlo ci facciamo sempre grandi risate. Quando era giocatore invece era sempre molto silenzioso: si vede che stava studiando. Mi sembra che abbiano preso alcuni insegnamenti da me. Adesso gran parte delle squadre puntano al mantenimento della palla». Si confidò sulle sue radici: «Cosa provo quando torno in Svezia? Penso che noi tutti abbiamo il bisogno di “sentire” la terra dove siamo nati. Ma quando sono in Italia non ho nostalgia, non l’ho mai avuta. Però quando vengo qui ritrovo i miei vecchi amici, riscopro gli affetti famigliari di mio fratello Karl e di mia sorella Margareta».
Era nato a Valdemarsvik, in Svezia, l’8 ottobre 1922. Si sposò con la contessa Maria Lucia Gabotto di San Giovanni. Un figlio, Carlo. Nel tempo libero si dedicò alla produzione del vino, nel Monferrato. Barbera, Grignolino, Pinot nero, Sauvignon: 100.000 bottiglie l’anno. «Ero alla ricerca di un podere e ho trovato dei vigneti», raccontava. «Vivendo in Italia la tavola diventa quasi un rito. Si lavora per mangiare, per andare a tavola e poter parlare, per restare insieme. A me piace e fa bene il cibo italiano. Noto subito la differenza tornando in Svezia: aringhe marinate, patate svedesi, surstròmming, l’aringa del Baltico fermentata». Morì a Cuccare Monferrato il 5 novembre 2007. Passò alla storia come il Barone, l’appellativo che gli diedero i tifosi della Roma. A Milano lo chiamavano il Conte: in identico omaggio alla nobiltà dei suoi comportamenti. Il compianto fu grande e sincero. Il giornali sta Gigi Garanzini lo ricordò così: «Quante razioni di buonumore, caro vecchio Nils, e quante lezioni di calcio, in campo e fuori. Con quella maschera alla Buster Keaton e quell’italiano sussurrato che nemmeno dopo 50 anni e passa di residenza contemplava i verbi ausiliari e certe consonanti: “loro abastansa bene”; “noi jocato melio”. Un signore prima che un campione. Un educatore p r i m a che un allenatore». E Giovanni Trapattoni: «Il primo dei miei maestri, un papà». Anche per Falcao «un padre». E pure per Rivera «un maestro». I suoi successi? Come giocatore, nel Milan 11 campionati: 394 presenze e 89 gol. E quattro scudetti. Da allenatore, due scudetti: uno col Milan, l’altro con la Roma. Nella Roma vinse anche tre volte la coppa Italia e perse la finalissima solo ai rigori con il Liverpool in coppa Campioni. Con la nazionale svedese vinse l’Olimpiade del 1948 e la medaglia d’argento, dietro il Brasile nel campionato del mondo, dieci anni dopo, come capitano. La Svezia ha dedicato a Liedholm un francobollo, per ricordare il più importante calciatore della sua storia.