Borsa e spread respirano, contro il Paese i fondi hanno venduto al ribasso. Moody’s: rating banche a rischio
Poteva essere un mercoledì delle ceneri, con qualche altro miliardo di valore borsistico finito su un rogo alimentato dalla miscela incendiaria dello spread.
Invece, è stata tregua, una parziale boccata d’ossigeno concessa dai mercati impegnati a decifrare i machiavellismi della politica italica e a osservare quel continuo su e giù dal Colle che tanto somiglia ai grafici di Borsa nelle giornate incerte. Ma il rimbalzino di Piazza Affari, un +2% che non assorbe le perdite accumulate nella due giorni di devastazione della Borsa, e il ripiegamento di una trentina di punti del differenziale tra Btp e Bund, sceso a quota 275, sono appena un brodino corroborante. Roba che si smaltisce in fretta. I problemi di fondo restano. Tutti.
Basta infatti girare appena lo sguardo altrove, e subito si sbatte il naso sul motivo per cui il dossier Italia sarà uno dei temi dominanti del G7 dell’8 e 9 giugno in Canada: è il rischio-Paese che sale, col Tesoro costretto ieri a garantire sui Btp quinquennali un rendimento rispetto all’asta precedente più che raddoppiato (2,32%), e incapace di piazzare tutti i titoli decennali in offerta malgrado un tasso del 3%. Oneri del debito in salita, con i grandi investitori spaccati in due scuole di pensiero: mentre Jp Morgan considera ora i Buoni poliennali «una opportunità di acquisto», il fondo monstre Pimco ritiene che i bond tricolori non assicurino ancora un risarcimento sufficiente per il rischio di un’uscita del nostro Paese dall’euro.
Ma chi doveva agire, l’ha già fatto nei giorni scorsi. Come? Shortando, ossia scommettendo al ribasso sui titoli italiani, e in particolare sulle banche, usando la leva della crisi politica. Ci sono tutti i grandi player della speculazione nella lista, aggiornata a martedì e resa nota ieri dalla Consob, di chi ha venduto allo scoperto: da Viking Global a Engadine Partners, da Marshall Wace a Lansdowne Partners; e ancora: Pdt Partners, Alvento Capital Partners, Kairos e Pictet Asset Management. Nomi che a molti dicono poco o nulla, ma che sono in grado di gestire masse patrimoniali pluri-miliardarie e di spostare umori – e sorti – dei mercati. Talmente forti, tipo il fondo Bridgewater, da imbarcarsi in un’operazione delicata come la puntata down su Eni ed Enel, giganti ad elevata capitalizzazione e in genere risparmiati da attacchi speculativi. Il problema di queste operazioni a tenaglia è che amplificano le tensioni e indeboliscono i titoli più vulnerabili. Le banche, soprattutto, a causa del carico di titoli del Tesoro in pancia. Motivo che ha spinto Moody’s a metterne sotto osservazione 12 per un possibile taglio del rating (Unicredit, Intesa Sanpaolo, Banca Imi, Cdp, Mediobanca, Fca Bank, Bnl, Credem, Crédit Agricole Cariparma, Cassa Centrale Raiffeisen, Invitalia e Banca del Mezzogiorno), mentre Bank of America ha eliminato le raccomandazioni di acquisto e cambiato gli obiettivi di prezzo di Intesa, Unicredit, Ubi e Banco Bpm.
Ci sono dunque buoni ragioni per restare in guardia. Anche perchè sull’Italia pende la spada di Damocle di un declassamento del rating sovrano a junk, ovvero al livello spazzatura, che impedirebbe alla Bce (e non solo) di acquistare i nostri titoli. È un pericolo ben segnalato dall’andamento del parametro Mds, basato sui cds (i contratti per assicurarsi contro il rischio di default di un Paese) rilevati dalla divisione Capital Iq di Standard&Poor’s. Sperare in un intervento salvifico di Mario Draghi? Difficile. Spiegano fonti interne all’Eurotower alla Reuters: «Nessuna banca centrale reagirebbe a eventi sulla scia di fatti che si sono manifestati in pochi giorni. La Bce non ha inoltre gli strumenti né il mandato per risolvere quella che è essenzialmente una crisi politica».
Rodolfo Parietti, Il Giornale.it