Un fuoriclasse di cinismo straziato da un male segreto
Eclettico, graffiante, malinconico. Il critico scrittore che sceneggiò «La dolce vita» non accettò mai la malattia della figlia e la crudele indifferenza degli amici intellettuali

Ennio Flaiano
(di Cesare Lanza per LaVerità) Non ho mai avuto l’occasione di frequentare Ennio Flaiano, neanche di incontrarlo. È un acuto rimpianto per me, se penso alla mia vita e alla mia lunga carriera. Metto le mani avanti, sono sicuro che qualche lettore obietterà: ma allora perché ne scrivi, non hai sempre detto che nelle tue rievocazioni domenicali hai scelto di occuparti solo dei personaggi, famosi e popolari, che hai conosciuto direttamente? È vero: salvo un paio di volte, così è stato. E allora? Il motivo fondamentale è che avrei desiderato essere io, un Ennio Flaiano! Come, presumo, molti miei amici e colleghi. L’ho letto, ammirato, affettuosamente invidiato. Non ho provato neanche per un istante lo stesso sentimento per gli altri grandi protagonisti dei miei ricordi: presidenti della Repubblica, primi ministri, capi di aziende gigantesche e imprenditori straordinari, campionissimi dello sport, cantanti popolari… Grande stima e assoluto rispetto, ma non avrei voluto essere come loro, sebbene li abbia conosciuti bene, e da vicino. Ennio Flaiano, sì: mi ha affascinato per la sua perfida cattiveria, il senso dell’umorismo, il malinconico e perfido cinismo. Confesso dunque di aver sognato di essere simile a lui e ovviamente chiedo scusa per la vanità, la presunzione. Ma, cari lettori, conquisterò – spero – la vostra comprensione: vi delizierò, subito, con una raccolta delle sue battute, paradossi, aforismi. Eccola! Ho scelto fior da fiore.
La più celebre, forse, citata migliaia di volte, è questa: «Gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori». Un’altra, impertinente, che piace molto: «Spesso la donna italiana è cuoca in salotto, puttana in cucina e signora al letto». Ma ecco il buffet che ho preparato, scegliete a vostro piacimento: «A furia di leccare, qualcosa sulla lingua rimane sempre». Un paio di battute valide anche in questi giorni: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti egli antifascisti»; «Fra trent’anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la tivù»; previsione che rafforzò: «La televisione mi fa dormire, proprio come un vero sonnifero». Mi incanta il pessimismo, la consapevole malinconia. «Si arriva a una certa età nella vita e ci si accorge che i momenti migliori li abbiamo avuti per sbaglio. Non erano diretti a noi». «La morte ha la faccia di certe signore che telefonano al bar col gettone: e a un certo momento, senza smettere di telefonare, vi fanno un cenno di saluto e di sorpresa». «L’italiano è mosso da un bisogno sfrenato di ingiustizia». «La situazione politica in Italia è grave, ma non è seria».
L’umorismo, in Flaiano, è costante: con infinite sfaccettature e una sottile varietà di toni. «Cara, quando siamo a letto è inutile che mi chiami commendatore. Sì, capisco l’abitudine, il rispetto, tutto quello che vuoi, ma dove va a finire l’intimità? Facciamo così, chiamami semplicemente dottore». «Ha una tale sfiducia nel futuro che fa i suoi progetti per il passato». «Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso». «Chi rifiuta il sogno deve masturbarsi con la realtà». «La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia». «In amore bisogna essere senza scrupoli, non rispettare nessuno. All’occorrenza essere capaci di andare a letto con la propria moglie». «Il vero psicanalista delle donne è il loro parrucchiere» . «L’italiano ha un solo vero nemico: l’arbitro di calcio, perché emette un giudizio». «La stupidità degli altri mi affascina, ma preferisco la mia». «Credete in Dio? Io sì, ma è Dio che non crede in me». «Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi governa». «In Italia nulla è più stabile del provvisorio». «L’evo moderno è finito. Comincia il Medioevo degli specialisti. Oggi anche il cretino è specializzato». «In ogni minoranza intelligente c’è una maggioranza di imbecilli». «Vivere è diventato un esercizio burocratico».
Questa sequenza è stata una scorpacciata? Credo che la lettura di Ennio Flaiano non ti renda mai sazio. Anche se molte sue battute sono ben conosciute e ripetute di frequente (a proposito e a sproposito).
Di Flaiano però, rispetto a battute e aforismi, è assai meno conosciuta la sua vita. Da premettere, lo sbalordimento per il suo geniale eclettismo. Sceneggiatore, scrittore, giornalista, umorista, critico di cinema e drammaturgo. Era nato a Pescara, il 5 marzo 1910 e morì a Roma, d’infarto, il 20 novembre 1972. Piccolo borghese la famiglia di origine, il padre un commerciante, la mamma casalinga come quasi tutte le donne del primo Novecento; lui l’ultimo di sette fratelli. Passa l’infanzia, secondo gli spostamenti della famiglia, tra Pescara, Camerino, Senigallia, Fermo e Chieti. Approda a Roma nel 1922, a dodici anni, e si diploma al liceo artistico. A vent’anni divide una stanza in viale delle milizie con il pittore Orfeo Tamburi, e poi collabora come scenografo con Antonio Giulio Bragaglia. E conosce Mario Pannunzio, Telesio Interlandi, Leo Longanesi e altre grandi firme del giornalismo italiano, iniziando a collaborare alle riviste L’Italia letteraria, Omnibus e Quadrivio. Poi si trasferisce a Pavia per frequentare la Scuola ufficiale e partecipa alla guerra d’Etiopia. Torna a Roma nel 1939 e inizia a occuparsi di cinema, collaborando con il neonato settimanale Oggi: scrive recensioni in cui i giudizi sui film sono un pretesto per esprimere un «sotterraneo dissenso al regime».
A trent’anni sposa Rosetta Rota, insegnante di matematica, di Vigevano. Scrive dovunque, spesso con pseudonimi: Patrizio Rossi, Ezio Bassetto o Ennio Di Michele… Da Risorgimento liberale, a 35 anni, passa a II secolo XIX (spesso si firma Pickwick), e scrive anche su Star, Mercurio (rivista appena fondata da Alba de Céspedes), Domenica, Città e La città libera. In una parola, incontenibile. Ma nel 1947 si concentra su Il Mondo (caporedattore fino al 1951). Poi, negli anni Sessanta, inizia una fase di viaggi e incontri internazionali: in Spagna, Olanda, Zurigo, Stati Uniti e Israele.
Un capitolo, cruciale e drammatico, nella vita di Flaiano è la nascita della figlia, Luisa, chiamata sempre Lelè. A otto mesi Lelè è colpita da una gravissima forma di encefalopatia, che comprometterà la sua vita. A stento la piccola, crescendo, riusciva a parlare e a camminare. Una ferita perenne nel cuore di Flaiano, che teneva un diario del «dolore»: un racconto privato, con lucide e disperate riflessioni sul male incurabile, insieme con alcune lettere indirizzate alla moglie Rosetta e alla stessa figlia. Ma non erano sempre pensieri riferiti al dramma della malattia. Leggiamo, con data 25 luglio 1943: «Cara Lelè, ti scrivo per dirti che oggi il tiranno d’Italia è stato mandato a spasso. Si chiamava Mussolini. Un giorno tu ti sorprenderai quando ti racconteranno quello che si è sofferto in ventun anni di miseria morale…». La moglie Rosetta intanto si era stabilita in Svizzera: non era riuscita a trovare in Italia un istituto adatto a prendersi cura della figlia. Flaiano piombò in una estrema solitudine affettiva. E a questo proposito va corretto il riferimento che d’abitudine si fa alla sua (presunta) fortissima amicizia con Federico Fellini. Vero che il legame professionale fu fondamentale, ma un’amicizia profonda non esisteva. Flaiano soffriva per l’indifferenza «totale», verso il suo dramma, degli amici intellettuali. Rosetta ha detto: «Noi i problemi più grandi li abbiamo avuti proprio con le fasce più elevate della società, con i cosiddetti intellettuali. Con gli amici e i colleghi di mio marito, per esempio, che venivano nella nostra casa di Fregene, ma non rivolgevano neanche un cenno di saluto a mia figlia. Un nome per tutti, un nome simbolo: Federico Fellini. Quando veniva da noi non riusciva neppure a guardare Luisa, lui come altri giravano la faccia dall’altra parte, come infastiditi». Luisa morirà nel 1992.
Nel 1943 Flaiano aveva cominciato a lavorare come sceneggiatore. Per il cinema è evidente il suo sentimento di amore e odio. Dichiarò spesso che il cinema lo aveva distolto dal lavoro letterario, risucchiandolo «in una attività superficiale e poco gratificante»: allo sceneggiatore andavano pochi riconoscimenti, il vero autore del film era solo il regista. Tra il 1947 e il 1971, firmò alcune tra le più belle sceneggiature del cinema del dopoguerra, collaborò con Fellini (10 film), Marcello Pagherò e Alessandro Blasetti (4 ciascuno), Luigi Zampa, Romolo Marcellini, Camillo Mastrocinque, Mario Monicelli, Roberto Rossellini, Michelangelo Antonioni, Eduardo De Filippo e altri. Era un autore prezioso, il più ricercato.
Ritorniamo però a Fellini. Ennio e Federico si erano incontrati negli anni Trenta, quando il regista lavorava per Marco Aurelio e Flaiano per Omnibus. Fellini confidò: «Me lo ricordo tutto vestito di bianco, di un lino bianco, spippettante… si era messo a guardare vignette e caricature appese alle pareti. Mi sono presentato e gli ho detto che lo ammiravo moltissimo, ma… non era proprio vero… ci siamo detti che ci ammiravamo moltissimo». La collaborazione nacque nel 1950 con Luci del varietà, il film più importante fu La dolce vita (1960). Ma il rapporto tra i due fu sempre burrascoso: rispetto e creatività, ma anche continui litigi. Fellini disse: «Quel rompicoglioni di Flaiano è proprio un rompicoglioni… Le sue cose da scrittore e non lo smuovi… e poi è pigro, è pigro. Scrive solo quando è costretto, quando ha bisogno di soldi… o scrivi o tiri la cinghia!». Regista e sceneggiatore si integravano, ma proprio per questo litigavano. Flaiano diceva, non del tutto scherzoso, a Fellini: «Se perdi me, perdi tutto!». E si infuriò quando Fellini lo «tradì» con Pier Paolo Pasolini, ingaggiato per scrivere i dialoghi romaneschi per Le notti di Cabiria (1965), con Giulietta Masina. E poi soprattutto c’era il contrasto umano. E i rapporti si chiusero definitivamente, quando Fellini fece una battuta infelice sulla figlia di Ennio. Secondo Rosetta, alcune persone avrebbero sentito dire al regista: «Ma perché non la rinchiudono?».
Flaiano fu legato a Roma, amata e odiata. In particolare alla leggendaria via Veneto, tra la metà degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Settanta, famosa in tutto il mondo. I caffè di via Veneto erano popolati da scrittori e poeti: Mario Pannunzio, Sandro De Feo, Ercole Patti, Vincenzo Cardarelli, Vitaliano Brancati, Vincenzo Talarico, Alberto Moravia, Alberto Arbasino, Pier Paolo Pasolini, Giovannino Russo. I ritrovi preferiti: il bar Rosati e la libreria Rossetti che non ci sono più, il cafè de Paris, il cafè Doney. E a quella compagnia si aggiungevano le star del cinema e nugoli di fotografi («paparazzi»). Lui prediligeva anche il caffè Aragno in via del Corso e il caffè Greco in via Condotti. Nel 1970 Flaiano fu colto da un primo infarto, poi andò a vivere da solo in un residence, portando con sé pochissimi libri. Nel 1972, in clinica per accertamenti, un secondo infarto, questa volta fatale.
Desidero ricordare ancora una sua battuta (dedicata a Carmelo Bene), che definisce in modo esemplare i confini tra volgarità, trasgressione e ribellione: «Detesto chi fa i baffi alla Gioconda, ma non ho niente da dire a chi la prende a pugnalate». Su di lui sono state scritte e dette migliaia di opinioni. Ne ricordo due. Vittorio Gassman: «Flaiano buttava lì le cose più belle al caffè, con una eleganza rara. Abbiamo passato centinaia di serate insieme. Da lui, come da altri intellettuali buffoni degli anni Cinquanta e Sessanta, ho imparato il gusto della vita. Oggi ci si prende troppo sul serio». E la sintesi di uno storico del cinema, Alessandro Poggiani: «Poeta lunatico, irriverente, un arcimboldo antidemagogico, antiprogressista, antimarxista e antiborghese, personaggio assolutamente originale che sfugge a qualunque classificazione».