L’inefficienza energetica è il tallone d’Achille del Bitcoin

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C’è chi ha predetto la fine dei Bitcoin perché sono una “frode” (Jamie Dimon, amministratore delegato di JpMorgan) e chi perché sono una “bolla” (Warren Buffet); c’è poi chi è scettico perché la criptovaluta non ha alle spalle un “emittente identificabile” (Yves Mersch, membro del consiglio direttivo della Bce) e chi ricorda come non sia in nessun modo regolamentata (Janet Yellen, presidente della Fed). Fino ad oggi, però, tra diversi alti e qualche basso, le sue quotazioni hanno seccamente smentito i detrattori, tanto che il Bitcoin si è guadagnato l’onore di un future scambiato sul Cboe Futures Exchange di Chicago.

Il successo della criptovaluta potrebbe però essere ostacolato da una ragione molto più semplice e pratica: l’eccessivo costo del suo funzionamento in termini di energia elettrica. La valuta virtuale è infatti energivora sia per quel che riguarda la creazione di nuove monete sia per quel che riguarda la validazione delle transazioni, due distinti processi che rispondono ai termini informatici di “mining” e “blockchain“. In questi giorni, una singola transazione Bitcoin richiede tanta energia quanto 10 appartamenti in una settimana, e tutto il network utilizza più energia di tutta la Bulgaria. Le altre valute non sono sono da meno: Ethereum, la seconda criptovaluta, usa tanta energia quanto alcuni piccoli paesi del Mediterraneo.

“L’anno scorso l’impatto ecologico della blockchain è stato molto discusso, perché ha raggiunto livelli inediti di inefficienza e di consumo per transazione – ha affermato Manuel Beltrán, il fondatore dell’Institute of Human Obsolescence (IoHO) – In molti casi, quando è possibile costruire determinate tecnologie, le persone semplicemente le usano acriticamente, senza considerare le implicazioni etiche o sociopolitiche. Ed è questa la sfida che stiamo raccogliendo”.

E proprio l’IoHO ha voluto dimostrare le implicazioni “energetiche” del Bitcoin con un progetto che è a metà fra un esperimento avveniristico e una provocazione. A L’Aia in Olanda dove ha sede, l’Istituto guidato da Beltrán ha messo a punto una tecnologia in grado di fare il mining di criptovalute sfruttando il calore umano: quando è a riposo, un corpo umano adulto genera circa 100 watt di potenza, e circa l’80% viene sprecato come calore corporeo in eccesso; questo calore in eccesso viene trasformato in energia da generatori termoelettrici indossabili.

Le valute virtuali “minate” non sono state molte – l’IoHO ha puntato sull’Altcoin in quanto richiede meno energia elettrica del Bitcoin – ma la folle corsa delle loro quotazioni ha comunque generato un buon gruzzolo per l’istituto e le sue “cavie”, che hanno potuto tenere per loro l’80% delle valute generate. “Non abbiamo mai estratto Bitcoin perché sarebbe inutile produrli con il calore umano – racconta Beltrán – Abbiamo estratto esclusivamente Altcoin e il valore delle prime monete che abbiamo generato è aumentato di oltre il 46.000%. Quelli che all’inizio erano solo pochi centesimi ora si sono trasformati in una grossa quantità di denaro”.

L’esorbitante costo della bolletta energetica del Bitcoin emerge ancora più chiaramente se si guarda al processo di mining. Oggi nella maggior parte dei paesi generare nuove monete è antieconomico, perché il costo della loro produzione è superiore al loro valore. Il mining viene realizzato solo in alcuni paesi dove il costo dell’energia elettrica è molto basso, come per esempio la Cina. In alcune zone del paese asiatico sono presenti delle vere e proprie fabbriche di Bitcoin, attrezzate con i computer più adatti al mining e situate vicino a delle centrali elettriche. Questi stabilimenti sembrano una versione rudimentale e più artigianale dei grandi data center di Google e Facebook, dove migliaia di server mantengono online e funzionanti i loro servizi.

Secondo una ricerca condotta dalla piattaforma britannica di comparazione delle tariffe energetiche PowerCompare, nel 2017 i consumi di elettricità per “minare” i Bitcoin ha sorpassato quelli di ben 159 nazioni, e in particolare quelli dell’Irlanda e della maggior parte degli stati africani: 30,14 terawattora (TWh) di elettricità. Un valore tra l’altro in crescita, perché all’aumentare dei Bitcoin in circolazione cresce anche la complessità dei calcoli per generarne di nuovi. Se il prezzo dei Bitcoin dovesse scendere ancora, neanche le fabbriche cinesi sarebbero più in grado di guadagnarci e allora anche il Bitcoin sarà costretto ad adottare processi più “ecofriendly”, come tutti i grandi consumatori di energia.

Marco Frojo, Repubblica.it