Roberto Gervaso recensisce “Ecco la (nostra) stampa bellezza”, il nuovo libro di Cesare Lanza

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Roberto Gervaso

Caro Cesare Lanza, ho letto il tuo ultimo libro, edito da La Vela, Ecco la (nostra) stampa, bellezza (ritratti di giornalisti di oggi, alcuni di ieri, grandi e meno grandi). Un pantheon lucido, esaustivo, ghiotto. Mancava. Hai colmato la lacuna. Bravo. I giornalisti di cui con affettuosa malizia o ancor più insinuante perfidia tracci i profili, li ho conosciuti quasi tutti. Con alcuni, sei stato troppo severo, con altri troppo indulgente, con i più passionalmente e freddamente equanime. So che hai tanti amici, come ne ho io. Ma so che hai anche tanti nemici, come ne ho io. Come ne abbiamo tutti. Giudichi Arrigo Benedetti il più grande giornalista del Novecento e riconosci che Indro Montanelli, mio straordinario, ma anche scomodissimo maestro (tutti i maestri lo devono essere) fu insuperabile. Io, Benedetti, l’ho visto un paio di volte, non di più e ne ho subito colto il prodigioso intuito, le virtù di un eccezionale direttore d’orchestra, come deve essere chi è al timone di un giornale. Tanti gli devono tanto, ma io non gli devo niente. Io, tanto, lo devo a Montanelli che, a diciotto anni, mi prese sotto le sue ali e mi restò sempre vicino. Grazie a lui, sulle sue sdutte spalle, varcai la soglia di quello ch’era allora non un santuario del giornalismo italiano ma il santuario, la Mecca: il Corriere della sera. Mi feci le ossa con Gaetano Afeltra, che mi ha sempre dato e a cui ho sempre dato del lei. Disse anche a me che il giornalista ideale dev’essere «orfano, figlio di puttana, scapolo». Molti lo erano, e molti lo sono. E senza essere ideali. Lo sono, e basta. I maestri nel tuo sapido e indiscreto repertorio non si contano. C’è Edilio Rusconi, Mida infallibile, animatore formidabile, editore munifico, ineguagliabile talent scout. C’è Franco Di Bella, che io, io solo, presentai a Licio Gelli, non immaginando quel che sarebbe successo. E, come ricorderai, successe di tutto, e di peggio. Scoppiò il finimondo, e a farne le spese fu la Verità. Quella Verità tanto sbandierata da chi la predicava e non la praticava, la invocava e la conculcava. Direttori, al Corriere, ne ebbi tanti, ma il più esuberante e creativo, il migliore dei migliori fu Di Bella, sotto il cui regno i quotidiani di via Solferino toccò astrali picchi di vendite, consolidando la sua autorità. Diamogliene atto, sia pure postumo. Dopo di lui, tante cose cambieranno, ma non sta a me dire se in meglio o se in peggio. Io lo rimpiango, come rimpiango Montanelli, cui devo il mestiere, la tecnica, il rispetto incondizionato per il lettore. Il mio solo, unico, vero padrone. Anche tu, caro Cesare, anzi, Cesarone, per la tua falstaffiana mole, sei stato, e sei, un maestro. Almeno due generazioni ti sono debitrici per quello che gli hai insegnato, non al tavolo di gioco, dove nessuno oserebbe sfidarti, ma al tavolo di lavoro. Hai un mucchio di difetti, ma anche infinite virtù. Sei un amico troppo distratto per essere interessato e un collega troppo altruista per non essere imbarazzante. Anche per te, gli anni passano. Potrei esserti fratello maggiore. E poi, in comune, abbiamo la passione per gli aforismi e per la mozzarella di bufala. E di giornata.

Roberto Gervaso, Il Messaggero