Giornalisti capitani coraggiosi e pirati da Tortuga, cacciatori di notizie e cercatori di raccomandazioni, inviati dal divano di casa e cronisti da marciapiede: tutti conosciuti e fissati nella memoria di Cesare Lanza. Che li ha raccontati in un libro senza indulgenze
«Se una mattina camminassi sulle acque del fiume Potomac i giornali scriverebbero: il presidente non sa nuotare». C’è un’immortale frase di Lyndon Johnson a mettere in guardia i lettori, a spiegare loro che stiamo pur sempre parlando di giornalisti, meravigliosi e faziosi, oggi eccitati contro le fake news ma dimentichi della suprema lezione degli anni Novanta, quando direttori con quattro segretarie e stipendi da primi ministri dicevano: «Questa notizia è stupenda, vuoi anche che sia vera?».
Capitani coraggiosi e pirati da Tortuga, cacciatori di notizie e cacciatori di raccomandazioni, cronisti da marciapiede e inviati da salotto: li ha conosciuti tutti, Cesare Lanza, e come un entomologo dalla formidabile memoria li ha fissati in bacheca con uno spillo in un libro divertente e per niente indulgente dal titolo Ecco la (nostra) stampa, bellezza, sottotitolo Ritratti di giornalisti di oggi, alcuni di ieri, grandi e meno grandi, edizioni La Vela. Con un’avvertenza, l’autore parla solo di coloro che ha conosciuto, ha frequentato, ha soppesato, ha lanciato in 60 anni vissuti dentro il mestieraccio, praticato con tutti i media possibili: carta, radio, tv, Web. Perché i mezzi possono cambiare, ma la qualità dei contenuti riesce pur sempre a fare la differenza.
Il tema è d’attualità nei giorni di uscita del film The Post di Steven Spielberg, in cui il giornalismo mostra il suo lato più affascinante: la ricerca della notizia, la profondità dell’inchiesta, la forza di un’alleanza virtuosa (e poco esplorata nei giornaloni italiani) fra la redazione e l’editore. I giganti di Lanza sono quattro: Indro Montanelli, Antonio Ghirelli, Gino Palumbo e Gianni Brera, affiancati da purosangue di redazione come Arrigo Benedetti, da un carismatico inventore di giornali come Edilio Rusconi, da Niccolo Carosio sublime in radio ma vittima della tv, tradito dalla parola negraccio (mai pronunciata) nei confronti di un guardalinee etiope e della frase in diretta «consoliamoci con un buon whiskaccio», scambiata per induzione ad alzare il gomito. Così il «vanno tutti a prendersi un té caldo» di Fabio Caressa è una citazione prudentemente analcolica. Il monumento al quale Lanza sembra più affezionato è Alessandro Maria Perrone, direttore ed editore al 50% del Messaggero e del Secolo XIX. «Il cugino, ostile alla sua linea favorevole al centrosinistra, vendette la sua metà; Sandrino non si arrese e respinse l’assalto di Eugenio Cefis, presidente della Montedison, che voleva insediare Luigi Barzini. Arrivò a dormire nella sede del Messaggero per timore di essere espugnato, di fatto. E non si muoveva mai da Roma».
Era la stagione d’oro dei giornali ed erano gli anni del dominio televisivo della Rai pentapartito e lottizzazione selvaggia -, quella in cui (copyright di Enzo Biagi) «su tre assunti uno era democristiano, il secondo comunista e il terzo bravo», lo dicono i nomi, lo rivelano gli aneddoti. Anche Ugo Zatterin non faceva mai le vacanze in agosto, perché quello era il mese delle epurazioni nei Tg e per salvaguardare la poltrona era fondamentale starci seduti sopra. Lanza suddivide i giornalisti in numerose categorie (le leggende, i potenti, gli innovatori, gli intransigenti, i sopravvalutati, i purosangue, gli anaffettivi, gli affabulatori, i duttili, le grandi firme femminili e via elencando) e di ciascuno’narra episodi imperdibili.
Fra i direttori di potere spicca Eugenio Scalfari, definito grande, permaloso e detestabile. «Quando si preparava a lanciare La Repubblica lo intervistai e mi disse che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di imporre la sua creatura, anche a costo di colpi bassi. La frase non piacque ai suoi editori di allora (Mondadori). Così mi smentì tre volte, ma per tre volte rintuzzai e confermai. Da allora non ci siamo più parlati». Bussava alla porta di Luigi Bisignani per avere notizie e aveva una caratteristica in comune con il divino Gianni Brera: non azzeccava una previsione, non coglieva uno scenario. Brexit, l’ascesa di Beppe Grillo, Donald Trump, la sconfitta di Matteo Renzi al referendum sono solo gli ultimi svarioni del Fondatore. Esattamente come il più formidabile dei giornalisti sportivi, che di Eddy Merckx disse: «Non vincerà mai una grande corsa a tappe», dell’Italia mondiale in Spagna «siamo inferiori anche al Perù e alla Polonia». E poi: «Nessuna squadra affacciata sul mare vincerà mai lo scudetto» (Cagliari, Napoli, Sampdoria dopo la profezia). E il supremo: «Se perdiamo contro la Corea smetto di scrivere». Per fortuna dei lettori decise di mentire a sé stesso.
Negli anni delle grandi tirature il giornalista ideale avrebbe dovuto rispondere a tre caratteristiche dettate da Gaetano Afeltra, altro fuoriclasse: «Essere orfano, figlio di puttana e scapolo». Regola in vigore anche oggi. Allora perché doveva essere a disposizione 18 ore al giorno, adesso perché con l’illusione del Web guadagna così poco da non potersi permettere né padri né figli, figuriamoci le amanti.
Cesare Lanza ammira Giuliano Ferrara per la raffinatezza, Maurizio Belpietro per l’intransigenza politica, Marco Benedetto per la cultura enciclopedica, Roberto D’Agostino per l’inventiva. Ha un debole per Giampaolo Pansa, adorato dai giovani colleglli per l’affabilità, a differenza di Giorgio Bocca che pretendeva il lei da tutti (del resto il suo capolavoro si intitola Il provinciale). Ci fa sapere che Marco Travaglio si rilassa con il karaoke e con le canzoni di Renato Zero; che Massimo Fini passa il tempo a rileggere i suoi articoli e i suoi libri come Gabriele D’Annunzio; che la « J» di Clemente J. Mimun è un omaggio del padre a Charlie Chaplin e sta per Jackie Coogan, il bambino protagonista di Il monello; che Sarah Varetto cominciò come valletta in una tv privata piemontese con la maglia del Torino addosso; che Maurizio Beretta, da direttore di Rai1, detestava il calcio a tal punto da «proibire che si seguissero le partite in redazione». Per un giusto riconoscimento delle competenze sarebbe diventato presidente della Lega Calcio.
Lanza ha lanciato un battaglione di reporter e li ha visti scalare la montagna, come Ferruccio de Bortoli, Gianantonio Stella, Gigi Moncalvo, Edoardo Raspelli. Con il due volte direttore del Corriere della Sera e con Vittorio Feltri ha un rapporto problematico e non lesina dettagli. Niente infingimenti, niente carezze, piuttosto un sano contropelo che solletica la lettura. Ha visto Paolo Mieli piangere, forse dopo aver perso 100.000 copie in una notte, quella dell’endorsement per Romano Prodi. Ha ascoltato l’ex direttore del Fatto quotidiano, Antonio Padellaro, ammettere: «Su Silvio Berlusconi ho scritto qualsiasi cosa tranne, forse, che avesse crocifìsso Gesù Cristo».
Ha giocato una surreale partita a poker in cui Francesco Totti andava a vedere ogni carta dall’alto del suo potere economico e Giorgio Tosatti usciva di testa. Ha svelato che l’inventore della Lilli Gruber di trequarti davanti alla telecamera fu Antonio Ghirelli, che voleva darle un «aiutino per leggere le notizie dal gobbo».
Il libro è una miniera di retroscena, con uno scoop e un outing. Lo scoop è quello che l’autore fece intervistando Indro Montanelli e determinandone il licenziamento dal Corriere della Sera. «La dichiarazione decisiva fu un rumoroso annuncio, meditava di fondare un anti Corriere per restituire ai lettori lombardi il loro giornale». L’outing riguarda Camilla Cederna. «Mi lasciai coinvolgere, come tanti altri, nella sua dissennata campagna diffamatoria contro un galantuomo come Giovanni Leone, allora presidente della Repubblica. Come tanti altri superficiali stupidoni, più anziani e famosi di me, abboccai». Un’ammissione che gli fa onore. È comunque messo meglio di Giuliano Pisapia e della sua giunta, che nel 2013 hanno intitolato a «lady fake» i giardinetti davanti all’Università Statale di Milano come esempio per i giovani.
Giorgio Gandola, LaVerità