(di Cesare Lanza per LaVerità) Scommettiamo che molti tra i nostri cari lettori non hanno ben inteso che cosa e chi abbia voluto indicare, quando mi sono riferito metaforicamente alla sparviera? La richiesta di dare un adeguato chiarimento mi è arrivata da una gentile lettrice, Viola Maria Lucentini, un’insegnante di Firenze. Eccomi: vado per ordine, e spero di non annoiare nessuno. La Sparviera è il titolo di un bel romanzo di Gianna Manzini, una grande scrittrice toscana, che ebbe un importante successo, ma non tanto rilevante quanto avrebbe meritato. Nel romanzo, la sparviera è il nome che il protagonista dà alla devastante tosse che lo affligge. Il romanzo fu pubblicato nel 1956, un anno cruciale per la mia formazione: ero un adolescente, in quarta ginnasio, avevo cominciato a scrivere sui giornali. Quel libro mi è rimasto nel cuore per tutta la vita e ho scelto quel titolo come simbolo dell’entità che stabilisce, indipendentemente dalla nostra volontà, la fine dell’esistenza umana. Nei primi tempi forse era una sorta di esorcismo. Poi, a poco a poco, alla sparviera mi sono affezionato: un modo un po’ romantico, gentile, di riferirmi alla morte. Soprattutto per non averne paura, e questo è il messaggio semplice che vorrei mandare alla signora Lucentini e ai lettori. La sparviera è un uccello nobile e rapace, una specie protetta (in Italia non esiste): ne ho sempre avvertito l’agguato vigile, ma discreto. Ora che la mia età è a dir poco senile, a volte la sento svolazzare, non distante, forse indecisa: lei sa, io no. Ma siamo diventati quasi amici. E, consentitemi, non è un rapporto da poco.