Mattarella attenderà la fine dei lavori parlamentari, poi calerà il sipario La data del voto dovrebbe essere il 4 marzo, resta l’incognita Ius soli
Ormai è chiaro che voteremo fra tre mesi, assicura Palazzo Chigi, per cui «una settimana prima o dopo che differenza fa?». E in effetti, come in un puzzle, i tasselli del fine-legislatura stanno scivolando tutti a posto. Pare certo che alle urne andremo il 4 marzo o al più tardi la domenica successiva. Il presidente della Repubblica non ha speciali preferenze, né sta mettendo fretta al Parlamento. Se le Camere volessero approvare qualche legge in extremis, per esempio lo Ius soli, Sergio Mattarella non starebbe lì col cronometro in mano. Aspetterebbe i giorni necessari, rendendo superflue eventuali pericolose scorciatoie tipo voti di fiducia cui, pare, nel Pd qualcuno starebbe pensando. L’importante è che la volontà politica sia seria e concreta: così si ragiona sul Colle. Altrimenti ricordarsi all’ultimo momento delle pratiche inevase diventerebbe un pretesto per allungare il brodo.
Ecco dunque il primo punto fermo: Mattarella si orienterà in base al calendario parlamentare. Salvo colpi di scena, il 22 o il 23 dicembre prenderà atto che la legislatura non ha più nulla da dire. Tenendola in vita, i nostri onorevoli resterebbero sfaccendati fino al 15 marzo: data in cui secondo Costituzione le Camere andrebbero comunque sciolte. Meglio abbreviare l’agonia. Passato Santo Stefano, ogni giorno sarà buono per ridare voce al popolo. Il 28 dicembre Gentiloni terrà la tradizionale conferenza di fine anno; quindi il giorno stesso (o l’indomani) riunirà un Consiglio dei ministri di “commiato”. Dopodiché non dovrà nemmeno dimettersi: anzi pare certo che a Camere sciolte il premier manterrà la pienezza dei suoi poteri, come del resto suggerisce una lunga lista di precedenti, iniziata con il VII governo De Gasperi (1953) e proseguita fino al Berlusconi ter (2006). Addirittura, in teoria, Mattarella potrebbe calare il sipario senza che Gentiloni nemmeno gli faccia visita, ma semplicemente dopo aver «sentito» i presidenti di Senato e Camera. Dati gli eccellenti rapporti, il premier sarà comunque ricevuto al Quirinale, come atto di cortesia e per fargli mettere nell’occasione la controfirma al decreto presidenziale di scioglimento. Le ultimissime dai piani alti suggeriscono che ciò avverrà entro la fine dell’anno. E poiché la Costituzione prescrive un massimo di 70 giorni tra decreto e elezioni, i conti sono facili: voteremo il 4 marzo, appunto, o al massimo domenica 11.
Le dimissioni di Gentiloni arriveranno parecchio più tardi, dopo che le nuove Camere si saranno riunite,verso metà aprile. Ma se nessuna soluzione di governo verrà trovata, il premier resterà a disbrigare «gli affari correnti» per molti mesi ancora. Quanti? Nel libro «La presidenza più lunga», Vincenzo Lippolis e Giulio M. Salerno ricordano come per dar vita al governo Letta ci vollero 127 giorni. Per quello di Dini 123, per il primo di Andreotti ne furono necessari 121. Insomma: se disgraziatamente la crisi del dopo elezioni si rivelasse senza sbocco, e si dovesse votare nuovamente a metà ottobre, il governo Gentiloni potrebbe restare in carica fino a quella data senza bisogno di un voto di fiducia. E del resto, annotava un secolo fa Giuseppe Prezzolini, «in Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio». Solo un premier precario da noi può durare a lungo.
Ugo Magri, La Stampa