C’erano una volta / Manlio Scopigno

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Il geniale allenatore filosofo che sognavo per il mio Genoa

Colto e ironico, ha dato al calcio più di quanto ha ricevuto. Guidò il Cagliari di Riva, portandolo a vincere il suo unico scudetto. Per restare lì rifiutò l’offerta della Juventus

Manlio Scopigno

(di Cesare Lanza per LaVerità) Gli ho voluto bene, al di là della stima e della simpatia, e penso che abbia dato al calcio assai più di quanto il calcio abbia dato a lui. Geniale e incompreso. Colto, ironico, capace di sdrammatizzare con una sola battuta, molto avanti rispetto agli altri personaggi del suo tempo. Manlio Scopigno, l’allenatore-filosofo, chiamato così per la sua saggezza, e non solo perché all’università aveva studiato Socrate e Platone, Immanuel Kant e Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Nel calcio italiano occupa un posto speciale, è rimasto celebre perché riuscì a portare in Sardegna, guidando un formidabile Cagliari, il primo e unico scudetto nella storia dell’isola.

Scopigno era nato il 20 novembre 1925 a Paularo, in provincia di Udine, e morì a Rieti il 25 settembre 1993, dunque neanche settantenne: probabilmente anche perché fiaccato dell’alcol e dalle sigarette, ch’erano state inseparabili abitudini e compagnie della sua vita, sempre anticonformista. E sempre con la battuta pronta. Alla Domenica Sportiva, la sera dello scudetto, Enzo Tortora gli domandò: «Di lei hanno detto che è lo scettico blu, l’enigmatico, il sornione, il filosofo. Insomma Scopigno, lei chi è?». Risposta: «Uno che in questo momento ha sonno», come ha rievocato Gigi Garanzini in un libro.

Scopigno era «un cerebrale dissacratore, un cultore amabile del paradosso». Ne aveva per tutti, mormorando o borbottando sentenze col suo inimitabile filo di voce. Con la formidabile qualità di saper osservare il mondo in modo disincantato, lucidamente realistico. Caustico. Tra le tante, ricordo questa frase: «Il più pulito nel calcio è il pallone. Quando non piove». Eravamo a metà degli anni Sessanta, ne sono passati più di 50: se consideriamo tutte le nefandezze (corruzioni, sordidi intrighi di potere, illegalità) che hanno caratterizzato il nostro ultimo mezzo secolo di calcio, è giusto o no considerare Scopigno come un osservatore presago, straordinario per il sarcasmo?

Indimenticabili, per me, alcuni episodi del suo straordinario successo in Sardegna. Manlio arrivò a Cagliari nel 1966: ero poco più che ventenne, sposato con un figlio, meditavo di lasciare la facoltà di legge per trasferirmi a lettere e filosofìa e semplicemente ero un fan sfrenato di Scopigno per i suoi comportamenti anticonvenzionali. Il Cagliari aveva conquistato la serie A appena due anni prima, il suo obiettivo era di rimanervi ad ogni costo, il suo gioiello era Gigi Riva – che sarebbe diventato uno dei campioni più amati e ammirati dello sport preferito dagli italiani.

Il Cagliari va negli Stati Uniti in tournée, invitato dal console italiano a Chicago. Scopigno beve un whisky di troppo, chiede del bagno, gli indicano scherzosamente un cespuglio in giardino. Oggi non ci crederete, ma il tecnico venne immortalato mentre faceva pipì all’aria aperta. Immaginabili le polemiche! Al ritorno, Scopigno riceve il premio Seminatore d’oro come miglior allenatore di serie A e, contemporaneamente, dal Cagliari la lettera di licenziamento. Desolazione? Macché. Il leggendario proprietario dell’Inter, Angelo Moratti, lo prega di restare a disposizione a fronte di un ingaggio, con lauto stipendio, per tutta la stagione. Tuttavia è il Cagliari, in difficoltà in classifica, a fare un passo indietro e a richiamarlo in panchina. Nel 1969 lui conquista un favoloso secondo posto e io avevo già tre figli, Piero Ottone mi aveva scelto come capo dei servizi sportivi del Secolo XIX, io deliravo più che mai per Manlio e lo avrei voluto nel «mio» Genoa, magari al posto di un pur bravo allenatore, Arturo Silvestri, rigoroso e inflessibile, l’esatto contrario di Scopigno.

Nel 1970 il capolavoro: la conquista dello scudetto, con molto anticipo, dopo un secco 2-0 al Bari. Il trionfo viene esaltato come una rivincita sociale, «una vittoria della collettività», un’affermazione non solo di un club, ma dell’intera isola. Ben 17 vittorie, 11 pareggi e solamente due sconfitte: 45 punti, un vantaggio di 4 punti sull’Inter, 7 sulla Juventus e 9 sul Milan. Nella squadra c’erano importanti calciatori: il portiere Enrico Albertosi, i difensori e centrocampisti Comunardo Niccolai, Mario Martiradonna. Pierluigi Cera, Riccardo Greatti, gli attaccanti Angelo Domenghini, Nené, Sergio Gori (il goleador Roberto Boninsegna dopo tre anni era passato all’Inter). E la superstar Gigi Riva.

Scopigno festeggiò con la sua squadra in un angoletto. Era stato squalificato per 5 mesi dopo aver insultato («Stronzo, smettila di sventolare quella bandierina e mettitela nel culo») un guardalinee che aveva annullato un gol regolare di Riva nella partita prenatalizia Palermo-Cagliari. Con la solita reazione ironica: «Meglio così. Sta arrivando l’inverno, in tribuna c’è più caldo che in panchina». E quando gli chiesero cosa volesse dire vincere lo scudetto, lui rispose: «Vincere uno scudetto a Cagliari equivale a vincerne cinque a Milano o Torino. Come lo so e come faccio a dirlo? Me l’ha detto Domenghini, che a Milano c’è stato e ce lo ripeteva sempre, per far capire che lui era uno importante».

Assolutamente inconsueto il rapporto con i suoi giocatori. Per lui non contava nulla la rigida abitudine del ritiro e della castità da imporre ai giocatori, il controllo puntiglioso delle diete e dei carichi di lavoro, la puntualità nell’andare a letto a orari precisi. Fu un autentico rivoluzionario. Stop dunque ai ritiri noiosi e deprimenti, libertà ai giocatori, dialoghi e iniziative per costruire forti rapporti umani, personali. Così, per il «suo» gruppo, divenne subito un idolo. Spostò gli allenamenti al pomeriggio e ridusse la fatica all’indispensabile. Se doveva esprimersi con severità per contestare qualche errore, lo faceva con una battuta. Con Gigi Riva il rapporto fu subito perfetto. Il campionissimo aveva l’abitudine di dormire fino all’ora di pranzo e anche più? Scopigno tranquillamente abolì gli allenamenti mattutini: forse anche per comodità sua, era un tiratardi.

Una volta a Torino dovevo intervistare Riva prima di una partita cruciale con la Juventus e aspettavo, con l’allenatore, che scendesse dal pullman che portava il Cagliari in albergo. Erano le 4 del pomeriggio. Quando Gigi arrivò davanti a noi, Manlio mi sussurrò: «Non vedi che è morto di sonno? Lascialo dormire un paio di ore e prima di cena ti darà un’intervista migliore». E così fu. Razionalmente Scopigno aveva puntato tutte le risorse della squadra sul suo goleador, con un rapporto pressoché paritario e di reciproco rispetto. E bastano poche cifre per ricordare la grandezza di Rombo di tuono (secondo la definizione di Gianni Brera): 13 campionati nel Cagliari, 289 partite e 156 gol; in totale, nelle 446 partite ufficiali, 252 gol. E in Nazionale 35 gol, tuttora un record. Quando Scopigno ebbe la proposta di passare alla Juventus, Riva gli disse: «Mister, dobbiamo parlarle. Se ci lascia, noi veniamo con lei, tutti in blocco abbandoniamo Cagliari, si ricordi di questa nostra decisione prima di prendere la sua».

Manlio rimase a Cagliari e in seguito anche Gigi ebbe un’offeria molto importante dalla Juventus, per trasferirsi a Torino. Il Cagliari avrebbe incassato 1 miliardo di lire e il club era sul punto di cedere. Ma anche Gigi rifiutò, decise di restare a Cagliari fino alla fine della sua carriera. Un attaccamento fedelissimo e romantico all’isola, anche se Riva era di origine lombarda (era nato a Leggiuno, in provincia di Varese, nel 1944). Si dice che, oltre all’amore per la Sardegna, Riva non volle lasciare Cagliari per una liaison, impossibile, con la bellissima Gianna Tofanari.

Molto divertente il rapporto di Scopigno con un altro giocatore, il terzino Comunardo Niccolai, che certo non era un campione, ma un fido scudiero, un soldato combattivo ed entusiasta. Niccolai è rimasto famoso per alcuni suoi involontari e strepitosi autogol. Scopigno li commentava con bonarietà. Nell’anno dello scudetto, a Torino, contro la Juventus (marzo 1970), Comunardo firma un’autorete da favola e Manlio, in tribuna, commenta: «Bel gol, non è vero?». Niccolai arrivò perfino alla Nazionale, inseguito nel fortissimo blocco cagliaritano. E Scopigno: «Tutto mi sarei aspettato dalla vita, ma non di vedere Niccolai a colori e via satellite, in mondovisione». Niente di male, per il terzino, nient’affatto permaloso: «Erano manifestazioni di affetto, il mister mi voleva bene».

Ho ricordato i vizietti di Scopigno: esagerata assunzione di sigarette (senza filtro) e di alcol. Whisky e champagne. Lui ci scherzava su. «Con il whisky ho chiuso, definitivamente. Ora bevo solo champagne». Amava il cinema neorealista, l’arte contemporanea, leggeva moltissimo: mi lega al suo ricordo anche la passione comune per lo scrittore Luciano Bianciardi (La vita agra), geniale e in parte incompreso, proprio come lui. Tra i personaggi che ho descritto, sono felice di aver ricordato Scopigno perché lo considero degno della Verità: un uomo libero di mente, indipendente, controcorrente. E mi commuove il fatto che ai suoi funerali fossero presenti solo due suoi giocatori, Pierluigi Cera e Riva. Sui campi nessun minuto di silenzio, neanche a Cagliari. Quindi desidero ricordare il grande allenatore filosofo ancora con le sue battute. Un fattorino del presidente Luigi Goldoni (presidente del Bologna dopo la morte di Renato Dall’Ara) gli recapitò un biglietto di licenziamento. Lui lesse imperturbabile e sussurrò: «Ci sono due errori di sintassi e un congiuntivo sbagliato». E la testimonianza più significativa arriva da Cera: «Scopigno era arrivato da poco. Eravamo in ritiro e in sette o otto, in barba alle regole, ci eravamo dati appuntamento in una camera per giocare a poker. Fumavamo tutti e giocavamo a carte sui letti. C’era anche qualche bottiglia che non ci doveva essere. A un tratto si apre la porta: è Scopigno. Oddio, penso, ora ci ammazza! Scopigno entrò, nel fumo e nel silenzio di noialtri che aspettavamo la bufera, prese una sedia, si sedette vicino a noi e disse tirando fuori un pacchetto di sigarette: Do fastidio se fumo? In mezzora eravamo tutti a dormire e il giorno dopo vincemmo 3-0».

Scopigno viveva le partite con un apparente menefreghismo. Ancora Cera: «In un’importante partita con la Juventus, a pochi minuti dalla fine, agitatissimo corre dal tecnico: “Mister, quanto manca?”. Scopigno, aspirando la sua sigaretta con incredibile calma, risponde: “A cosa, scusa?”».