Il principe triste della risata meritava il Nobel più di Fo. È stato il più grande e infelice attore italiano, un genio incompreso di valore universale Ebbe tanti amori tormentati, ma le sue battute restano nel nostro linguaggio quotidiano
«Siamo uomini o caporali? ! ». «Io sono un uomo di mondo, ho fatto il militare a Cuneo». «Signori si nasce e io lo nacqui». «Gli avvocati difendono i ladri. Sa com’è… tra colleghi». «Come è gentile per essere una parente: sembra un’estranea!». «È vero, ho rubato per 25 anni, ma l’ho fatto per alleviare le sofferenze di un orfano, povero, senza casa, senza madre, né padre: io». «A proposito di politica… ci sarebbe qualcosa da mangiare?». «Giura su qualcosa di più sacro del tuo onore: la tua fame».
«La mia fame è atavica: vengo da una dinastia di morti di fame!». «È sempre meglio un vigliacco vivo che un eroe morto, soprattutto se il vigliacco sono io». «Signore, di sua moglie mi piace tutto, tranne il marito».
«Se ho fornicato? Io nella vita ho fornicato sempre, mi chiamavano il fornichiere ! ». «Il diavolo si è arrabbiato perché gli ho rotto le corna? Ma non si deve preoccupare, tanto, se è sposato, gli ricrescono».
«La donna è la cosa più bella del mondo. Meno male che nostro Signore, per crearla, tolse una costola ad Adamo. Meglio una costola maschile in meno e una femmina in più». «Era un uomo così antipatico, che dopo la sua morte i parenti chiesero il bis». «A morte ‘0 ssaje che d’è?… è una livella». «Voi dite che sono morto? Perbacco, se lo avessi saputo sarei venuto vestito a lutto!». «I conti qualche volta non tornano. Ma io sono duca». «Tengo molto al mio titolo nobiliare perché è una cosa che appartiene soltanto a me… A pensarci bene il mio vero titolo nobiliare è Totò. Con l’altezza imperiale non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino. ROÌÌM, Mentre con Totò ci mangio dall’età di vent’anni. Mi spiego?». «Signori si nasce, cretini si muore». «Voi siete scapole, noi siamo scapoli… Ci facciamo una bella scapolata?». «Per i campioni sportivi niente fumo, niente vino e niente donne. Ma allora che vincono a fare?». «I parenti sono come le scarpe: più sono stretti più ti fanno male». «Che tempi! Gli ospedali tutti pieni, i cimiteri esauriti». «Sono vent’anni che lei dice di essere un perito, ma non perisce mai. Ma perisca una buona volta, mi faccia il piacere!». «Cavaliere, nessuno vuole farla fesso. Non ce n’è bisogno». «La sua vita si svolge tra casa e chiesa. E vabbé, ma nel tragitto cosa succede?». «Parlo solo la lingua madre perché mio padre morì quando ero bambino». «La zingara mi ha letto la mano e ha detto che sono un uomo fortunato: ci dev’essere un errore di stampa». «Lo so, dovrei lavorare invece di cercare dei fessi da imbrogliare, ma non posso, perché nella vita ci sono più fessi che datori di lavoro». «Io sono superiore a lei per cultura, per nascita e per censo. Io sono superiore a lei al censo per censo». «Parli come badi, sa ! ». «Il denaro fa la guerra, la guerra fa il dopoguerra, il dopoguerra fa la borsa nera, la borsa nera rifà il denaro, il denaro rifà la guerra». «Ottimista, pessimista, esistenzialista… Veramente io sono farmacista». «Lei vuole sposare mia figlia? No, non se ne fa niente: a me i generi non interessano, a meno che non siano alimentari». «Io sono integro e puro, sia di corpo che di spirito: non ho commesso peccati né di carne né di pesce». «Lei è un cretino: si specchi, si convinca». «L’aria condizionata è un prodotto della civiltà, ma io mica mi posso prendere una polmonite civile». «Morire, morire, che noia! Tutto il giorno sotto terra, con le solite facce dei vermiciattoli. È vero, ci sono i fuochi fatui, ma solo la domenica. Per il resto della settimana si sta chiusi in cassa: una vita da morti». «Ti chiami Ranocchia? Vieni, andiamo a fare un girino». «Si dice che l’occasione fa l’uomo ladro, ma anche per la donna non ci metterei la mano sul fuoco». «Signore, scusi se mi disturba!». «Non tutti i mali vengono per suocere!». «I domestici sono nemici pagati. Io il mio non lo pago per non offenderlo». «La donna è mobile e io mi sento un mobiliere». «Se il ragazzo che vuoi sposare è bello, vuol dire che non ha una lira: i fidanzati ricchi sono racchi». «I ministri passano, gli uomini restano». «Lei discende dai Borboni? Allora siamo parenti: da piccolo in casa tenevo un barboncino». «Io sono parte nopeo e parte napoletano».
«Nel dolore un orbo è avvantaggiato, piange con un occhio solo». «Coraggio ce l’ho. È la paura che mi frega». «Io da bambino ho avuto la meningite. Con la meningite si muore 0 si rimane stupidi. Io non sono morto». «Io voglio bene a Napule pecché ‘0 paese mio è cchiù bello ‘e ‘na femmena, carnale e simpatica. E voglio bene a te ca si napulitana pecché si comm’a me cu tanto ‘e core ‘minano».
Totò, nato a Napoli il 15 febbraio 1898, morì a Roma il 15 aprile 1967. Fu impressionante la straordinaria partecipazione di folla ai funerali. Aveva detto di desiderare un funerale modesto, semplice. Gli furono invece dedicate tre imponenti cerimonie. Ed ecco come arrivò alla fine. Il 13 aprile, all’autista Carlo Cafiero che lo accompagnava a casa con la sua Mercedes, disse: «Cafiè, stasera mi sento una vera schifezza». Avvertiva forti dolori allo stomaco, fu chiamato un medico che gli prescrisse alcuni farmaci e gli disse di stare tranquillo. La sera del giorno dopo, però, tremore e sudore: gli furono somministrati dei cardiotonici, senza esito. Alle due di notte implorò il cardiologo: «Professò, vi prego, lasciatemi morire, fatelo per la stima che vi porto. Il dolore mi dilania. Meglio la morte». È la testimonianza della sua ultima compagna, l’attrice Franca Faldini. Le ultime parole furono per lei: «T’aggio voluto bene, Franca. Proprio assai». Ma questa versione è contraddetta dalla figlia, Liliana, secondo cui Totò prima di spirare disse: «Ricordatevi che sono cattolico, apostolico, romano». Fu sepolto a Napoli, com’era la sua volontà. Ed ebbe tre funerali, il primo a Roma: la salma fu vegliata per due giorni da personaggi dello spettacolo e della politica, nella chiesa di Sant’Eugenio sul Tevere erano presenti 2.000 persone, perfino i registi che in vita lo avevano ignorato, i critici che avevano sostenuto che fosse un volgare attore di terz’ordine. Una semplice benedizione, a causa delle difficoltà create dalle autorità religiose perché Totò non era unito alla Faldini dal matrimonio: addirittura a Franca fu imposto di uscire dalla chiesa. La commozione toccò invece il culmine a Napoli: la gente, innumerevole, accolse il feretro fin dall’uscita dell’autostrada! Traffico interrotto, portoni socchiusi, negozi con serrande abbassate, i muri pieni di manifesti in segno di lutto. Ci vollero due ore perché il furgone che trasportava la salma riuscisse ad arrivare alla chiesa di Sant’Eligio. Ci furono episodi di panico, svenimenti, due donne e due agenti feriti. La bara, per precauzione, uscì da una porta laterale e finalmente Totò trovò la pace, nel Cimitero del Pianto, in una tomba a fianco dei genitori, del figlio Massenzio morto neonato, e di una donna che aveva tanto amato, Liliana Castagnola. Il terzo funerale fu celebrato al Rione Sanità: anche qui si raccolse una folla immensa, ma la bara era vuota. Ho scritto che ebbe una vita infelice. Tutti coloro che ho consultato mi hanno detto che era sempre malinconico – quasi sempre i comici sono tristi nella vita privata – e nascondeva il suo stato d’animo dietro estreme forme di educazione. Non aveva avuto una infanzia facile. Totò – ovvero Antonio Vincenzo Stefano Clemente era figlio di Anna Clemente e di un nobile di antica casata, ma finito in povertà, Giuseppe De Curtis, che non voleva riconoscerlo. De Curtis lo fece solo dopo vent’anni, sposandone la madre. Il ragazzo crebbe in condizioni disagiate: andava malissimo a scuola (bocciato alle elementari!) e si adattò a lavorare come garzone e imbianchino per portare un po’ di soldi a casa. Un’altra ragione di infelicità per lui fu l’ossessiva fissazione di farsi riconoscere un importante titolo nobiliare. Nel ’33 si fece adottare dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri, cavaliere del Sacro romano impero, per ereditarne i prestigiosi titoli. Ingaggiò lunghe, estenuanti e costose battaglie legali: il tribunale di Napoli gli diede ragione. Ma cosa ci importa? Lo ricordiamo forse perché ebbe il diritto di proporsi con un nome interminabile (Antonio Griffo Focas Flavio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi principe De Curtis di Bisanzio)? 0 perché era altezza imperiale, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Tessaglia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Durazzo? Totò era orgoglioso di tutto ciò, fece coniare monete d’oro simili a quelle dell’impero romano (che regalava agli amici). Ma noi, milioni di ammiratori, lo ricordiamo per la sua arte: protagonista nell’avanspettacolo e poi del varietà (12 grandi riviste), 40 spettacoli a teatro, nel cinema 97 film con 42 registi diversi. Un immenso e sempre crescente successo popolare. Ma con un’infelicità pesante: i critici e gli intellettuali lo snobbavano e lo trattavano come un poveraccio, perfino Elsa Morante scrisse altezzosamente diluì. «Bisogna morire perché qualcosa ti sia riconosciuto», commentava malinconicamente. E così fu. Anche in amore Totò ebbe esperienze tormentate. Eugenia Castagnola, attrice, conosciuta come «la sciantosa» 0 Liliana, era disperatamente innamorata di lui: abbandonata, si uccise e gli lasciò una lettera straziante. Totò portò il rimorso con sé per tutta la vita. Sposò Diana Bandini Rogliani, che gli diede una splendida figlia – Liliana, chiamata così in ricordo della Castagnola -. Ma anche questa storia finì male, Totò si era innamorato di Silvana Pampanini. Infine, fino alla morte, Franca Faldini, più giovane di 18 anni, rassegnata a sopportare numerosi tradimenti. Infine – per la serie delle sue infelicità- Totò dal ’39 aveva grossi problemi di vista per il distacco di una retina, fino a diventare cieco, nel 1957. E negli ultimi anni andava in scena, a teatro, senza vedere. Vorrei ricordarlo come già tante volte ho fatto: mi indigno a pensare che il premio Nobel sia stato attribuito a Dario Fo, per evidente opportunità politica, e non a lui. A livella, il poemetto sulla morte che ci rende tutti uguali, è un capolavoro assoluto della nostra letteratura. E la struggente canzone Malafemmena è di qualità superiore: niente, di Dario Fo, è paragonabile. Totò è un gigante, al confronto.
di Cesare Lanza, La Verità