Il ct della Nazionale che aveva previsto la sconfitta delle Br. Il suo Bologna vinse lo scudetto nel primo e unico spareggio della storia Accusato di doping, fu assolto: qualcuno aveva drogato la squadra.
Giuliano Sarti, Ardico Magrini, Sergio Cervato, Giuseppe Chiappella , Francesco Rosetta, Armando Segato, Julinho, Miguel Montuori, Giuseppe Virgili, Guido Gratton, Maurilio Prini. Questa è stata una grandiosa squadra, rimasta nella memoria degli appassionati di calcio, anche se sono passati più di 60 anni. La Fiorentina che vinse nel 1956 lo scudetto in modo trionfale, spezzando il triangolo Milan-Inter- Juventus, dominante in quegli anni, dopo la scomparsa – maggio 1949 – del Grande Torino. La Fiorentina era allenata da Fulvio Bernardini, detto «Fuffo», 0 «il Dottore» (perché era laureato in scienze economiche) dai suoi innumerevoli tifosi e ammiratori. A quella Fiorentina sono legato da un ricordo adolescenziale: avevo 14 anni e facevo, come tuttora faccio, un tifo sfrenato per il Genoa. Nell’ultima giornata di quel campionato lo squadrone di Bernardini imbattuto, aveva festeggiato lo scudetto con largo anticipo venne a Genova. Non c’era possibilità di confronto, eppure proprio allo stadio Marassi la Fiorentina perse la sua imbattibilità: i «miei» genoani vinsero 3-1! In stile Genoa: imprevedibile, travolgente. In svantaggio nel primo tempo, poi tre gol, di cui due negli ultimi cinque minuti. Consentitemi di citare la formazione rossoblu, mica male: Renato Gandolfi, Enio Cardoni, Fosco Becattini, Ragnar Larsen, Benedetto De Angelis, Luciano Delfino, Attilio Frizzi, Paolo Pestrin, Antonio Corso, Gunnar Gren, Riccardo Carapellese. All’epoca non c’erano violenze: i calciatori, vincenti 0 perdenti, uscivano tranquillamente e firmavano autografi per i tifosi. Ed ecco che quello fu il primo incontro con il mitico Fuffo. Dopo aver raccolto le firme dei miei idoli, Gren, Corso (ch’era stato espulso, il Genoa vinse in dieci!) e Carapellese detto Carappa, chiesi l’autografo a Bernardini. Mi domandò come mi chiamassi e scrisse: «A Cesare, tifoso genoano». Poi mi guardò e sorrise: «Contento come sei, certo non sei tifoso della Fiorentina!» Vent’anni dopo, come nei romanzi di Alexandre Dumas padre, entrammo in rapporti cordiali, ci incontravamo spesso, Fulvio era venuto a Genova, allenatore della Sampdoria, io mi occupavo dello sport al Secolo XIX, prima di diventarne caporedattore e poi vicedirettore. Di lui mi colpivano l’eleganza, la bonarietà e la cultura. Si parlava di pallone, ma anche di terrorismo (infuriavano le Brigate rosse), di crisi economica, di cinema e di giornalismo. Perché Fulvio era anche un giornalista. Lui viaggiava verso i 70 anni (era nato a Roma il 28 dicembre 1905 e a Roma si spense nel 1984, per una grave malattia), io ero un ambizioso trentenne. Mi sfotteva: «Sei partito forte come me, giovanissimo, vedrai che anche tu ti toglierai molte soddisfazioni…». Ironico con lievità, ma gentile, affettuoso: come sono i (pochi) romani aristocratici, non quelli di sangue blu. E io ricambiavo: «Visto che sei laureato e scienziato, mi dici come va a finire la crisi economica e anche l’austerità?». Sospirava: «Abbiamo sprecato la ricostruzione meravigliosa fatta dopo la guerra». (Mi sembra un’analisi valida ancora oggi). «Ci sarà da soffrire». E le Brigate rosse? Fulvio era di destra, ma senza pesantezze. «Nessun problema, su quelli. Sono estremisti rossi, ci vuol poco a capirlo. Si annulleranno con le loro mani. Vogliono una rivoluzione popolare e ammazzano la povera gente? Operai, magistrati, insegnanti, sindacalisti, giornalisti… È un errore grossolano, elementare. Determinante». Questa frase, preveggente, mi tornò in mente spesso durante i giorni del rapimento di Aldo Moro, quando furono massacrati gli agenti di scorta. Spesso gli chiedevo, senza però avere una risposta drastica, quale suo scudetto preferisse. Perché Fuffo era riuscito a ripetere il capolavoro fiorentino, a Bologna, qualche anno dopo. Precisamente nella stagione 1963-1964, e fu il primo allenatore a vincere il campionato alla guida di due squadre diverse. Rispondeva come fanno i genitori quando parlano dei figli: «Sono scudetti diversi, ma gli affetti sono uguali. Con la Fiorentina da un certo punto in poi fu una passeggiata, era una grandissima squadra, giocava sempre bene. Con il Bologna si soffri fino all’ultimo, fino allo spareggio a Roma. C’era una sfida con il potere milanese, che sosteneva l’Inter di Helenio Herrera». Ci fu un clamoroso episodio: alcuni giocatori del Bologna furono squalificati per doping, anche Fuffo squalificato, sanzioni in classifica, infine annullamento e riabilitazione. C’erano eccellenti campioni: Romano Fogli, Giaco mo Bulgarelli, Ezio Pascutti, Harald Nielsen, il tedesco Helmut Haller. Ma anche Francesco Janich, Mirko Pavinato, il portiere William Negri, Paride Tumburus, Antonio Renna, Marino Perani. Sapevo che Bernardini aveva detto che con quella squadra gli sembrava di essere in paradiso (dieci vittorie consecutive, un record). Ma non mi confidò mai quale fosse la sua preferenza. L’episodio del presunto doping fu devastante: cinque giocatori furono squalificati, poi assolti perché si ritenne che fossero stati dopati a loro insaputa. Quando seppe la notizia della squalifica, il leggendario presidente Renato Dall’Ara scoppiò a piangere e dopo poche settimane morì per un infarto: non potè assistere allo spareggio, a Roma, tra il suo Bologna e la grande Inter. Si accertò che le provette con la pipì dei calciatori fossero state manomesse, con l’aggiunta di amfetamine in dose tale da stendere un cavallo. Il Bologna, assolto, ottiene la restituzione dei tre punti che gli erano stati tolti e si trova alla pari con l’Inter di Herrera. La Gazzetta dello Sport propone la divisione dello scudetto in due, ma non si può. L’Inter chiede il rinvio dello spareggio, il Bologna vuole giocare subito. E difatti si gioca a Roma, all’inizio di giugno, allo stadio Olimpico, Fulvio batte 2-0 Herrera con gol di Fogli e di Nielsen. Ecco le pagelle, temutissime, di Gianni Brera, che detestava Bernardini: 9 a Janich e Fogli, protagonisti nel Bologna, 9 anche a Picchi nell’Inter. Quattro invece a Sandro Mazzola e Jair da Costa, irriconoscibili. Una curiosità: la Rai non ritenne opportuno trasmettere l’evento (lo spareggio resta tuttora un fatto unico nella storia del calcio italiano), oggi l’indifferenza sarebbe inimmaginabile. All’epoca era virtuosamente preferita la tv dei ragazzi: a quell’ora erano in programma Yoghi e Lassie. Quarantamila tifosi dell’Inter avevano invaso Roma! Determinanti furono il caldo e una certa stanchezza dell’Inter, ma Bernardini si impose anche grazie a un’astuta mossa tattica, il terzino Bruno Capra schierato sulla fascia sinistra, all’ala, con il compito di bloccare Mariolino Corso. A Genova – dov’era arrivato fa nel 1965 – per me era davvero un piacere parlare con Fuffo: mai mi fece sentire la differenza di età. Frequentavo alcuni dei suoi giocatori: Il portiere Pietro Battara, Giorgio Garbarmi, il grandissimo Romeo Benetti, un vero amico, Giancarlo Salvi ed Ermanno Cristin. Chiedevo a Fulvio giudizi e retroscena, di solito gli allenatori rispondono con opinioni banali. Lui, no: mi illuminava parlando di qualità e difetti, aiutandomi a capire la complessità del calcio. Detestava il catenaccio, preferiva schemi di attacco, alla fine diceva che la differenza era fatta dai calciatori di talento, non dagli allenatori. Dopo il 1974 – disastrosa eliminazione in Germania della Nazionale dal Mondiale – fu nominato et della nostra squadra azzurra. Incassò sconfitte bruttine e roventi critiche dei giornalisti nordisti. Ma il mio amico Giorgio Tosatti lo elogiò per la girandola di giovanissimi dai piedi buoni che convocò in Nazionale, preparando una grande svolta di cui dopo tre anni usufruì il suo successore, Enzo Bearzot. Inventò Alessandro Altobelli e individuò il talento di Giancarlo Antognoni. Una mia opinione conclusiva? Aveva doti naturali che lo distinguevano, al primo sguardo. Amava la qualità, valorizzava i giovani, all’occorrenza aveva intuizioni tattiche innovative: nella Fiorentina fu il primo a inventarsi l’ala tattica, Maurilio Prini. Era elegante, misurato, colto, conservatore certo, ma anche propenso alle novità. Mente libera, indipendente: privo di soggezione, consapevole senza arroganza delle sue capacità. Dovessi usare due sole parole per definire il suo stile direi: la naturalezza, la superiorità. E aggiungerei: tranquillità, serenità. Esemplare anche nel giornalismo: ha firmato per tante testate, fra cui Corriere dello Sport , Gazzetta dello Sport e II Messaggero. Ha giocato da calciatore per anni, con risultati importanti, nella Lazio, nell’Inter e nella Roma. E mi sono convinto che aveva la qualità per brillare comunque : nel calcio iniziò come porgere, poi come centravanti e come centrocampista, cervello della squadra. Fu utilizzato a grande in NaInale, ma Vittorio Pozzo, un galvanizzatore superbo e orgoglioso del suo ruolo, lo escluse dalle convocazioni con questa motivazione: «Sei troppo bravo, metti a disagio gli altri, si rompe la coesione del gruppo»… Incredibile. Però penso che i motivi fossero altri: a disagio era lui, Pozzo! Perché gli altri giocatori – due volte campioni del mondo, ricordiamolo – erano più 0 meno soldati e se si ribellavano lo facevano in modo popolaresco. Fuffo no: aveva idee ed eleganza e spesso, con il ragionamento, si opponeva al et. Con garbo? Questo è ciò che si dice. Ma non sono mai riuscito ad accertare se sia vera un’altra indiscrezione. Bernardini più di una volta, con freddezza, avrebbe tirato un paio di ceffoni ai suoi interlocutori. Da allenatore verso i suoi giocatori, mai. Ma da calciatore verso allenatori e dirigenti, sì. Un’altra rarità. Non so se sia vero. Ma non mi stupirei. Addirittura lo avrebbe fatto con Pozzo, e questo spiegherebbe l’incomunicabilità tra i due. Esordì come portiere, poi divenne centravanti e centrocampista. Si diceva che da giocatore affrontasse gli allenatori a schiaffi. Al catenaccio preferiva tattiche più offensive. Scoprì e lanciò Altobelli e Antognoni, che diedero il Mondiale a Bearzot.
Cesare Lanza