Il precedente di Google che ha deciso di patteggiare non permette dietrofront In Europa ci sono dieci Paesi ormai favorevoli e il Parlamento è a caccia di soldi
Pier Carlo Padoan lo ammetteva pochi giorni fa in audizione in Parlamento: «Sulla web tax il clima è cambiato». È accaduto all’ultimo vertice dei ministri finanziari in Estonia, accadrà di nuovo martedì a Lussemburgo. C’è il sì di almeno dieci Paesi europei e l’appoggio di altri nove, ma soprattutto di Italia, Francia, Germania e Spagna. Paolo Gentiloni dice di voler andare avanti con chi ci starà, Padoan considera «estremamente utile pensare a strumenti come questo a livello nazionale». Ambienti del governo e della maggioranza confermano che è deciso: dopo anni di annunci a vuoto, la Finanziaria per il 2018 introdurrà una tassa per i giganti del web. Non sarà nel decreto fiscale che verrà approvato la prossima settimana, né nel disegno di legge del governo: la norma arriverà solo durante l’esame parlamentare. Resta da decidere fra un paio di opzioni tecniche.
A spingere Google a transare era stata una approfondita indagine della Guardia di Finanza che aveva accertato centinaia di milioni di imposte non versate tra il 2002 e il 2015. Nel solo periodo 2009-2013 le Fiamme Gialle avevano calcolato 227 milioni di tasse evase grazie a triangolazioni tra Irlanda, Olanda e Bermuda. Quello è il precedente che cambia la storia: accettando di pagare 306 milioni, Mountain View ha ammesso di avere una stabile organizzazione in Italia e un fatturato molto più alto di quello denunciato. Basti dire che l’accordo firmato con Orlandi attribuisce 303 milioni di tasse evase a Google Italy e solo 3 milioni alla casa madre irlandese. La forza del web è nella sua capacità di sfuggire ai confini doganali, ed è per questo che una soluzione può essere efficace solo a livello europeo. Basti qui ricordare il balletto attorno ad Airbnb: nel 2016 il Parlamento tentò di introdurre una cedolare secca, Renzi la bocciò, da luglio è in vigore una contestatissima ritenuta sugli affitti brevi.
Le ipotesi sul tavolo ora sono due. Quella più soft prevede di imporre un’aliquota pari a circa l’8 per cento a tutti i big della rete senza stabile organizzazione in Italia. «È la strada tecnicamente più semplice ma – spiega una fonte impegnata nel dossier – senza controlli adeguati avrebbe l’effetto di una carezza». Per dirla più chiaramente: l’obiettivo del governo non è quello di obbligare Booking o Facebook a pagare qualcosa, ma a far emergere i ricavi effettivamente prodotti in Italia. D’altra parte l’idea di tassare i fatturati prodotti a livello nazionale è quella avanzata dall’ultima riunione dei ministri finanziari europei.
Sul tavolo c’è comunque una seconda opzione più elaborata: se l’azienda ammette volontariamente di avere una stabile organizzazione nel Belpaese (e dunque un fatturato più alto di quello denunciato) il governo si limiterebbe a imporre il pagamento dell’Iva dovuta. Questa soluzione corre però il rischio di violare i principi di equità e secondo alcuni sarebbe perfino incostituzionale. L’obiezione emersa a livello tecnico è che se Google, unico fra i grandi «over the top», nel frattempo ha accettato di pagare le imposte non versate – dirette e indirette – che senso avrebbe ora ammettere l’eccezione per tutti gli altri?
Di tutto questo maggioranza e governo e maggioranza discutono da giorni. Al tavolo fra gli altri ci sono il professor Mauro Marè e il presidente della Commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia. La pressione nazionale e internazionale è forte e il precedente di Google non permette più passi indietro. Ma, cosa più importante, il governo è a caccia di risorse e in Parlamento sono tutti favorevoli.
Alessandro Barbera, La Stampa