di Cesare Lanza
Il rabdomante della notizia
Luigi – per tutti Gino – Palumbo è stato il più grande giornalista/giornalista che abbia conosciuto in vita mia. E che vuol dire giornalista/giornalista? Per me, è il giornalista indipendente, che non ha altri riferimenti all’infuori delle notizie e dello stile più adatto per coinvolgere l’opinione pubblica ai massimi livelli. Di solito è un confezionatore di pagine, spesso un direttore, un grande titolista, un organizzatore, un valorizzatore del lavoro dei suoi colleghi, un lavoratore instancabile. Non ha particolare attenzione per la scrittura, non si lascia influenzare da lobby, potentati, partiti politici. Gino era tutto questo; più di tutti, meglio di tutti. Non era colto, non scriveva articoli memorabili. Ma la notizia era la sua bibbia, il suo credo: la trattava come un bravo sacerdote dice messa, con rispetto, trasmettendo la fede a chi lo ascolta. Una volta mi disse: “Ci sono tante notizie, ogni giorno. Il problema è trovare “la” notizia, quella che interessa alla gente più di tutte le altre. E trattarla in modo che tutte le curiosità siano esaurite, secondo possibilità umane e senza soggezione verso chiunque.” Quando facevo anch’io il direttore, ho sempre cercato di rispettare quella lezione. Ma non era semplice. Ci vuole un talento particolare, un istinto naturale: come un rabdomante che cerchi l’acqua. E Palumbo trovava l’acqua, cioè la notizia, anche in mezzo al deserto.
Un esempio? La vicenda di Gianni Rivera nella finale Italia- Brasile del campionato del mondo in Messico, nel 1970. Senza Gino, quella sarebbe rimasta una notizietta trascurabile, valida per tenere vive le polemiche e accesi i commenti solo per qualche giorno. Gino capì che quella era “la” notizia in grado di spaccare l’opinione pubblica, accendere fazioni e legioni di tifosi e di lettori, anche al di fuori dei territori calcistici. Perché? Perché Rivera aveva subìto una colossale ingiustizia, nel giorno di un evento che aveva coinvolto milioni di telespettatori. Una notizia ancor oggi memorabile; i lettori anziani ne conoscono il sapore e il fragore, i più giovani ne hanno sentito parlare e discutere, per anni. La sintetizzo, quarantasette anni dopo. Rivera era mal sopportato da Gianni Brera, feroce antagonista di Palumbo, e da un’influente corte di giornalisti che assecondavano Gioann nel considerarlo un incompiuto “abatino”. Il cittì della Nazionale, Ferruccio Valcareggi, e i vertici della federazione del calcio erano a dir poco influenzati da questa ostile critica. Così Rivera in Nazionale si alternava – come in una staffetta – con Sandro Mazzola: per di più, uno era il campione/bandiera del Milan, l’altro dell’Inter. E le polemiche erano scottanti anche per questo motivo. Venne il giorno della semifinale Italia-Germania, 4-3 per gli azzurri, una delle partite più importanti, di meraviglioso agonismo, nella storia del calcio. Una targa la ricorda, nello stadio di Cittá del Messico, molti libri e perfino un film ne sono stati ispirati. Ma non importò un fico secco a Brera e alla sua devota lobby che Rivera, con un magnifico gol – il quarto, decisivo, nei tempi supplementari – fu il protagonista dell’indimenticabile match, celebrato in tutto il mondo. Si stabilì che in finale Rivera non dovesse giocare, gli fu accordato di scendere in campo solo negli ultimi sei minuti.
Palumbo si impadronì di quella scandalosa scelta, ne fece una notizia simbolica per l’ingiustizia e l’ignavia di chi l’aveva adottata; e la trattò – un autentico processo – in tutti gli aspetti. Perché Rivera era stato escluso? Perché utilizzato solo per sei minuti? Per sfregio, per coinvolgerlo nella sconfitta? Con Rivera in campo avremmo potuto vincere il mondiale? Qual era la reazione del campione? Come si giustificava Valcareggi? Quali i commenti dei compagni, degli esponenti del calcio italiano e internazionale?
Ne nacque un putiferio, di cui ancor oggi c’è memoria. E quando i calciatori azzurri rientrarono in Italia, anziché essere festeggiati, furono sommersi dai fischi e perfino dal lancio di qualche pomodoro. Eppure quattro anni prima la nostra Nazionale era stata eliminata addirittura dalla Corea e adesso, invece, tornava come vice campione del mondo, battuta (travolta, per la verità) solo dai fantastici brasiliani guidati da Pelè. Come si spiega? L’indignazione per il trattamento riservato a Rivera e forse anche la cocente delusione per la magnifica occasione perduta erano diventate prevalenti su tutto. E oggi il mistero di quei sei minuti non solo è sempre discusso, ma tuttora irrisolto.
Questo era dunque il modo di lavorare di Gino, il suo stile. Lavoro, lavoro, lavoro. Al mattino una riunione per il confronto con la qualità e le notizie degli altri giornali. Guai, se c’era stata una bucatura, come la chiamava lui, ovvero una notizia in più, pubblicata da un concorrente. Bisognava in quel caso sventurato rimediare subito, e fare di più e di meglio. E poi, infine e soprattutto, c’era la caccia a quale fosse “la” notizia del giorno, giorno per giorno.
Gino era nato a Cava dei Tirreni il 10 gennaio 1921. E, anche se si potevano stabilire distinzioni e differenze, fu considerato sempre un napoletano verace. Aveva esordito a “La Voce“, poi passò a “Il Mattino“. Come ho già ricordato, era un uomo (ancor prima che un giornalista) di mente libera, indipendente. Non aveva paura di niente. Così entrò presto in collisione con il giornale napoletano concorrente, il “Roma”. E un nobile fumantino, Arturo Scotti di Uccio, capo della redazione avversaria, lo sfidò a duello: che si ricordi, l’ultimo vero duello nel mondo del giornalismo italiano. L’intrepido Gino non si tirò indietro. Non ho i particolari, ma per fortuna i padrini, dopo aver verificato la lealtà e le onorevoli intenzioni dei duellanti, interruppero quasi subito la disfida. E nessuno si fece male.
L’esperienza a “Il Mattino” fu per Gino preziosa: lì si formò e consolidarono il suo rapporto speciale con le notizie, i suoi criteri per proporle. Nel 1953 fondò “Sport Sud“, un settimanale popolare che ebbe una vita lunga e prospera, una vera scuola per giovani cronisti e polemisti di talento.
Alfio Russo, un grande direttore del Corriere della Sera, intenzionato a valorizzare due settori cruciali per la diffusione di ogni giornale, senti parlare di lui, lo valutò e con buon intuito, anche coraggiosamente, lo porto a Milano alla direzione della redazione sportiva. E qui fu il trionfo. Libero di fare ciò che volesse, Gino impose il suo stile, clamoroso soprattutto nelle pagine del lunedì: grandi titoli, grandi fotografie, grandi dibattiti. Sotto processo, di volta in volta i protagonisti della commedia nazionalpopolare del football: senza sconti per nessuno, e la notizia, sempre la notizia, al centro di tutto. Un successo strepitoso, lo sport diventò un giornale nel giornale, con il consenso e il sostegno di Alfio Russo. Il pubblico non era abituato a quella schiettezza e gradí moltissimo, avvertiva l’onestà imparziale di Palumbo, che trattava tutti, grandi e potenti club come quelli piccoli e provinciali, allo stesso modo.
Gino non amava le polemiche né pretendeva di diventarne protagonista. Ma era inevitabile, per lo stato delle cose e del suo criterio di lavoro. E così Gianni Brera, esattamente il suo opposto, lo prese di mira: Gino era meridionale e occupava il posto più importante, al Corrierone, dell’informazione sportiva. Usava un linguaggio semplice, divulgativo, Non aveva snobismi e capricci culturali. Adorava il gioco di attacco e aveva “adottato” Gianni Rivera, che ne era il simbolo. In poche parole, tutto ciò che Gioann detestava, lui era vagamente razzista, odiava e disprezzava i meridionali, considerava Rivera un campione velleitario e attaccava il calcio offensivo. Era colto e snob, e per di più, a mio sommesso e discutibile parere, aveva capito l’importanza di grandi polemiche, per aumentare la sua già notevole popolarità. Perciò irrideva costantemente Rivera e digrignava denti parole e insulti per polemizzare con Palumbo. Il quale sosteneva dignitosamente l’aggressione: una volta, a Brescia, per difendere l’amico Antonio Ghirelli, diede un ceffone a Brera e fu ricambiato con due pugni ben mirati.
Quando Piero Ottone diventò direttore del Corriere della sera, valorizzò Gino promuovendolo, insieme con Franco Di Bella, come alfiere del giornalismo/giornalismo. Ma poi, per ragioni che non ho mai ben capito (presumo beghe interne) Palumbo fu dirottato al timone dell’edizione pomeridiana, il Corriere d’informazione. Non fu per lui una stagione felice. Debbo dire che Gino forse non era tagliato per un giornale non sportivo, politico. Tentò di imporre comunque la sua formula: memorabile il titolone in
Prima pagina, “I metalmeccanici hanno ragione”, che molti – di recente anche Ferruccio de Bortoli – mi attribuiscono, erroneamente. Con sacro rispetto verso Gino, è corretto osservare che trattare con metalmeccanici, Confindustria e partiti politici era più complicato che misurarsi con Brera o difendere Rivera.
Gino mi stimava e mi voleva bene, aveva anche tentato di assumermi al Corriere, mi aveva segnalato a Ottone. Un momento imbarazzante per me fu quando i Rizzoli mi convocarono per offrirmi un posto di co-direttore all’Informazione, al suo fianco. Rifiutai e andai subito a casa sua per raccontargli tutto, in confidenza. Palumbo però reagì male, fece un casino: era giustamente offeso, ma aveva ignorato il patto di riservatezza con me. Così, quando i Rizzoli rilanciarono offrendomi la direzione, accettai. Gino la prese male, ma si risollevò presto. Alla grande. Gli diedero la Gazzetta dello sport e lui la portò – dal 1976 al 1983 a un primato, tirature incredibili, superiori a quelle di ogni altro quotidiano. Con la sua formula vincente, nello sport: la notizia, e tutto ciò che le è legato, al centro di tutto. Sicché gli offrirono la direzione del Corriere, il suo sogno, il sogno di quasi tutti. Ma Gino non accettò, purtroppo non poteva: era gravemente malato, senza speranze. Si spense a soli 67 anni, il 29 settembre 1987. Gianni Brera gli dedicò un articolo di commemorazione tanto atteso quanto brutto: ricordò, rosicando, tutto ciò che di Gino non gli era mai piaciuto, non riconobbe le sue qualità, addirittura lo liquidò come un semplice manager. Bello solo l’epitaffio finale (Gioann era un maestro della scrittura): “Che ti sia lieve la terra”. Una locuzione pagana – sit tibi terra levis – usata e abusata infinite volte, in seguito.
Spero di non essere irriverente se aggiungo che Gino, se fosse diventato direttore del Corriere della sera, avrebbe incontrato – lui, maestro di giornalismo puro, notizie e solo notizie – grossi problemi, trappole e avversità, nella degenerata società editoriale, e politica, di questi anni.
di Cesare Lanza, La Verità