Le politiche economiche e sociali finora attuate, con severi impatti sull’area della finanza pubblica ad ogni livello, hanno cercato di attuare – spesso con misure inadeguate, disordinate se non addirittura distorte – anche una politica redistributiva dei redditi mai organicamente pianificata e mirata a ridurre, con prudente gradualità, le diseguaglianze e la povertà nei limiti compatibili con le condizioni di equilibrio dell’economia nazionale. Si potrebbero però utilizzare gli spunti provenienti dal dibattito sulla flat tax per cercare di immaginare efficaci interventi legislativi organici, dotati della profondità e della chiarezza necessarie per rifondare (e non solo riformare) il sistema tributario complessivo, compresa la fiscalità locale, sempre più confusionaria e polverizzata.
Rifondare (e non riformare) il sistema tributario
Come era prevedibile, il dibattito balneare sulla flat tax si sta allargando, coinvolgendo addirittura il quadro politico dell’assetto costituzionale del paese (cfr. Panebianco, Corriere della sera del 21 luglio 2017, che solleva la questione del fondamento della Repubblica che dovrebbe essere la libertà più che il lavoro). Più sobriamente, però, è opportuno fare riferimento alle sole implicazioni sul sistema tributario, che ormai è ridotto a brandelli atomistici che sfidano, quanto a irrazionalità, le leggi gravitazionali, e che investono anche gli aspetti procedimentali ed organizzativi del prelievo tributario.
È difficile dissentire da quei commentatori che considerano l’ansia da prestazione del gettito tributario responsabile dell’instabilità, della prolissità endemica, della complessità e dell’irragionevolezza del sistema fiscale, che produce l’effetto di frenare la crescita economica e di appesantire anche gli oneri indiretti (di gestione) delle imprese. Quell’ansia è figlia delle politiche economiche e sociali che impattano severamente sull’area della finanza pubblica, ad ogni livello, e che pretendono di finanziare ogni tipo di servizio (l’ultimo intervento è costituito dai contributi per asili nido senza limitazione di reddito per i beneficiari). Esse hanno finora cercato di attuare, spesso con misure inadeguate, disordinate e talvolta distorte, anche una politica redistributiva dei redditi mai organicamente pianificata e mirata a ridurre, con la prudente gradualità, le diseguaglianze e la povertà nei limiti compatibili con le condizioni di equilibrio dell’economia nazionale.
Trovare un trade off tra interventi che cerchino di conservare e, ancor meglio, riqualificare lo stato sociale ai livelli attuali, ormai insostenibili a causa della loro polverizzazione e dei loro costi, e un livello di tassazione non soffocante e controproducente per lo sviluppo è un esercizio che non viene affatto compiuto e neppure tentato dalla “politica” più nobile, divisa tra coloro che si dedicano solo ad astratte formule di politica economica e sociale e quelli che pensano al sistema tributario come mero strumento di reperimento delle entrate, avulso dal contesto economico e sociale su cui incide e dai meccanismi tecnico-legislativi utilizzati.
Ma c’è di peggio.
Le forze politiche si sono nel tempo abituate a ragionare per compartimenti stagni. Pensano prima a spendere senza criterio, se non quello del loro tornaconto immediato, e poi a tassare per coprire le spese. Esse non offrono – e neppure sembra abbiano voglia di offrire – nei loro programmi di governo indicazioni concrete su alcune opzioni fondamentali da inserire negli scenari futuri che immaginano e che dovrebbero rendere chiari agli elettori ai quali sollecitano il consenso.
In particolare esse, anche per evitare le accuse incrociate di populismo, dovrebbero pronunciarsi su alcuni strumenti di governo indicandone i contenuti qualitativi e quantitativi in modo da permettere agli elettori un confronto immediato e misurabile.
In sintesi dovrebbero almeno indicare:
(a) il livello massimo rapportato al PIL che dovrebbe avere la pressione fiscale (intesa come sommatoria tra quella tributaria e quella contributiva);
(b) la misura percentuale della spesa pubblica allargata (Stato ed enti pubblici di altro tipo), non eccedente quella della pressione fiscale, che ci si impegna a non superare, destinata:
– ai servizi primari di rilevanza ed interesse pubblico;
– alla riduzione delle diseguaglianze e quindi a finanziare il rientro minimale dalle aree di povertà;
– eventualmente al lavoro di cittadinanza per garantire il diritto costituzionale al lavoro a tutti i cittadini italiani;
– a finanziare i servizi d’interesse e domanda individuale (sanità, previdenza, trasporti e viabilità, istruzione non d’obbligo, servizi comunali etc.), quale quota da addossare alla fiscalità generale, individuando anche le percentuali di ciascuna di tali categorie di spese;
– a sostenere le spese d’investimento pubblico e gli aiuti al sistema economico, tenendo conto di eventuali contribuzioni dell’Unione europea e della compatibilità con un nuovo indebitamento;
– a riduzione del debito pubblico pregresso, indicando anche le eventuali ulteriori entrate straordinarie da dismissioni dei beni pubblici che potrebbero essere utilizzate e quelle di natura tributaria, precisando se ipotizzano anche una lieve (ad esempio, max 2% annua) e temporanea (ad esempio, max 5 anni) imposta patrimoniale generale straordinaria di scopo (su patrimonio mobiliare ed immobiliare), applicando a fini perequativi franchigie appropriate.
Si tratta, evidentemente, di un’equazione complessa e difficile da risolvere con cui i partiti politici dovrebbero almeno tentare di cimentarsi per offrire agli elettori la propria visione della migliore pratica di governo che vorrebbero attuare e in base alla quale assumere il proprio impegno elettorale in modo che gli elettori possano compiere scelte consapevoli di voto, scevre da posizioni ideologiche preconcette.
L’elettore potrà perciò valutare con chiarezza (pur relativa) il disegno che ciascuna forza politica o loro coalizione ha sugli interventi pubblici nell’economia e nell’area sociale, sul relativo grado di invasività e sulle modalità della sua ipotizzata copertura finanziaria (tassazione e indebitamento). Tutto dovrebbe riguardare, naturalmente, l’intera area di finanza pubblica allargata (agli enti territoriali e non).
Viene da immaginare che, in un paese “normale”, possa accendersi un vivace dibattito pre-elettorale tra le forze politiche fondato non su frasi generiche ed inconcludenti ma sulla prospettazione di interventi organici, concreti e misurabili, su ciascuno dei punti innanzi enunciati, oltre che, beninteso, su altri grandi temi qui non trattati (politica estera, difesa, giustizia, sicurezza interna, migrazioni, ecologia etc.), con possibili punte estreme per l’ultimo di essi (riduzione del debito pubblico).
Per rendere efficaci e cogenti gli impegni assunti e contrastare le solite promesse elettorali, si potrebbe immaginare un meccanismo di controllo ferreo, di primo livello, sui limiti di prelievo e di spesa stabiliti ex ante quale programma di governo per la legislatura, che, data la rilevanza, potrebbe essere rimesso alla Corte dei conti, che accerta gli eventuali scostamenti, ed uno di secondo livello assegnato alla Corte costituzionale, su richiesta della Corte dei conti, per dichiarare l’inefficacia delle norme che violano gli impegni assunti in quanto modificano gli equilibri e possono minare il pareggio di bilancio costituzionalmente garantito.
Se però limitiamo l’approfondimento al contesto tributario, si potrebbero utilizzare gli spunti provenienti dal dibattito sulla flat tax per cercare di immaginare efficaci interventi legislativi organici (finalmente un codice tributario!) che dovrebbero avere la profondità e la chiarezza per rifondare e non solo riformare il sistema tributario complessivo, compresa la fiscalità locale che nel tempo è risultata sempre più confusionaria e polverizzata.
È, questo, un auspicio ed un invito al legislatore ed alle istituzioni.
Marco Damiani, IPSOA