Per un malato di Toro elogiare una bandiera della Juve è come per Fonzie dover chiedere scusa, ma bisogna rendere omaggio a una paratona di Gigi Buffon, che negli ultimi giorni ne ha collezionate anche troppe. Il capitano bianconero ha stigmatizzato le scritte che deridevano i caduti del Grande Torino con cui qualche ignoto aveva insozzato i muri della strada che sale alla basilica di Superga, dove l’aereo di quello squadrone si schiantò. L’esempio di Buffon (e di Marchisio, altro juventino doc) è stato contagioso. Persino il web, discarica di ogni flatulenza umana, si è riempito di tifosi bianconeri indignati dall’oltraggio e di granata pronti a prendere le distanze da un demente della loro parrocchia che ne aveva subito approfittato per sbertucciare i defunti dell’Heysel. Siamo abituati a considerare il calcio una zona franca in cui non valgono le regole della convivenza civile. Però esiste un limite alla trasgressione ed è il rispetto per i morti. Lì il gioco diventa serio e non fa più ridere. Con al collo la cravatta ufficiale del Real Madrid (ho una cara zia che abitava nel principato di Monaco, ma ora si trasferirà in Spagna), rivendico il diritto alla presa in giro e la portata liberatoria di un sano sfottò. Ma tra lo sfottò e l’odio esiste un confine, per quanto sottile come tutti quelli tracciati dall’intelligenza. Chi lo calpesta rovina l’intero quadro. Buffon, che aveva iniziato la sua eccezionale carriera indossando la maglietta «Boia chi molla», la chiude con un gesto così. Oltre che adulto è diventato grande, in un mondo che invece gode nel restare piccino.
Massimo Gramellini, Il Corriere della Sera