Il cielo in cui si trova a volare Alitalia, dopo la vittoria del “no” al referendum dei lavoratori e la decisione della società di procedere verso l’amministrazione straordinaria, continua a essere nuvoloso e pieno di turbolenze. Ma si registra qualche tentativo di fare chiarezza, soprattutto da parte del governo di Paolo Gentiloni. “Non ci sono le condizioni per una nazionalizzazione”, ha ribadito il presidente del Consiglio. Ecco che così, in questa fase, prevale l’ipotesi di un intervento pubblico, che possa supportare l’azienda in questa difficile transizione traghettandola – è la speranza – verso un compratore. Come ribadito da Gentiloni, però, non si tratterà di una nazionalizzazione, vale a dire di un ingresso dello Stato con una quota di maggioranza nel capitale, che vede al momento l’araba Etihad al 49% e i soci italiani di Cai, guidati da Intesa Sanpaolo e Unicredit, al 51 per cento.
L’intervento pubblico si sostanzierà invece in un prestito cosiddetto “ponte”, che consenta cioè alla società di attraversare questa complicata fase. A fornire qualche indicazione in più su questo finanziamento pubblico è stato il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda: “Il nuovo commissario deve assicurare la continuità dell’azienda e poi trovare un acquirente per Alitalia che sappia gestirla. L’unica cosa sarà avere un prestito ponte dallo Stato, intorno ai 300-400 milioni per assicurare sei mesi di gestione”. Calenda spiega, inoltre, la decisione del prestito ponte con la necessità di garantire i voli della ex compagnia di bandiera in un orizzonte di circa sei mesi e aggiunge che sono state già avviate le necessarie procedure con la Commissione europea, chiamata ad autorizzare l’intervento pubblico escludendo l’ipotesi di un aiuto di Stato.
E’ proprio qui che l’impianto dello schema di sostegno statale risulta debole. Ne è convinto Marco Ponti, docente del Politecnico di Milano ed esperto di Economia dei trasporti, che fa sapere subito di “non vedere bene questo ipotetico prestito ponte, soprattutto perché ancora non è ben chiaro per quanto durerà e a fronte di cosa sarà erogato”. Ponti ritiene che si configuri palesemente come un aiuto di Stato. E se dovesse pensarla così anche Bruxelles, la strada, già tutta in salita, del sostegno ad Alitalia potrebbe farsi più ripida che mai. E ci si muoverebbe a passo più sostenuto verso un fallimento. Secondo Ponti, tra le numerose difficoltà ci sarebbe quella di trovare un compratore. “La situazione finanziaria – osserva il docente del Politecnico – è così pesante (da ricordare che l’azienda perde intorno ai 600 milioni l’anno, ndr) che ogni giorno si perdono soldi. Per questo motivo, non vedo tanti acquirenti all’orizzonte”.
Si è parlato spesso di Lufthansa. E a riguardo Calenda ha detto che una eventuale cessione alla compagnia tedesca sarebbe senz’altro “interessante” e comunque “da esplorare”. Tuttavia, nota Ponti, anche Lufthansa non è più quella di una volta: “Non è più monopolista come prima, perché se l’ingresso sul mercato di Ryanair, da un lato, ha portato benefici ai viaggiatori, dall’altro, ha dato parecchio fastidio alle vecchie compagnie di bandiera”, che quindi adesso hanno le mani molto meno libere quando devono pensare a eventuali acquisizioni. Tra l’altro, Ponti reputa il settore dei servizi aerei in cui opera Alitalia sano e in quanto tale non bisognoso di sostegno. “Se devo metterci dei soldi – afferma il docente del Politecnico – allora li metto, tanto per fare due esempi, a favore di coloro che raccolgono pomodori o per finanziare settori obsoleti come quello dell’alluminio in Sardegna”.
Proprio perché il settore dei servizi aerei tira molto, a detta di Ponti, “un eventuale fallimento di Alitalia non sarebbe poi così tragico. Spesso e volentieri sono fallite compagnie aeree e non è mai successo niente di drammatico. La tragedia sarebbe se l’azienda, per esempio, costruisse aerei e avesse un know-how (bagaglio di conoscenze, ndr) da salvaguardare, ma si limita a farli volare, e anche piuttosto male”. Quanto alla causa principale della crisi di Alitalia, Ponti non ha dubbi: “L’uso clientelare che ne è sempre stato fatto da parte della politica e che non ha mai incentivato la società a diventare davvero competitiva sul mercato”. Anche Etihad, nella gestione, “ha avuto le sue colpe, ma fino a certo punto: avendo in mano solo il 49% è stata probabilmente troppo timida, ma perché a prendere le decisioni vere era il restante 51%”, vale a dire i soci italiani.
Carlotta Scozzari, Business Insider Italia