Due cose da tenere presenti delle elezioni francesi

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In politica esiste un’inveterata abitudine. Dalle elezioni straniere si usa trarre “lezioni” ad uso e consumo interno. Esercizio spesso sterile e stucchevole, perché le specificità “locali” non di rado prevalgono sulle possibili affinità. Di conseguenza il tutto si risolve nel supermarket delle opinioni e delle tesi, dove si prende quello che più conviene. Ma se si mantiene il ragionamento sul piano istituzionale, il discorso può avere più senso, perché da tempo esistono criteri accettati per la comparazione dei sistemi e, d’altra parte, la circolazione dei modelli è da tempo una realtà nell’Occidente giuridico.
E allora, due appunti.
Una comparazione da cui rimanere lontani, perché a mio avviso scorretta, attiene ad un confronto tra le leggi elettorali italiane a premio e le elezioni presidenziali francesi. In Francia si tratta di scegliere una carica monocratica, da noi eletti in collegi plurinominali, o organi collegiali nella loro interezza (se si considera che il premio è nazionale, alla Camera dei deputati). È una logica completamente diversa, che a torto si insiste ad assimilare in nome di una presunta esistenza di un modello neo-parlamentare. Che nessuno ascrive alla Francia ma che esisterebbe entro le logiche “direttiste” che accomunano Francia e Italia tramite il “trait d’union” dei nostri modelli locali (dal sindaco in su).
Ora, quando è da eleggere una carica monocratica ad un certo punto – presto o tardi – va scelta. Non c’è alternativa. Sarà scelta con una delle possibili maggioranze, secondo le regole. In passato per l’elezione di cariche monocratiche (non frequentissime) si sono seguite formule assai diverse, ma il secondo turno di ballottaggio (a due) è preferita perchè pare offrire una maggiore legittimazione a quella che resta la maggiore minoranza (per ipotesi anche infima), giacchè essa diventa fatalmente – a causa della logica binaria del ballottaggio – maggioranza.
Per il resto non sono possibili confusioni concettuali tra forme di governo diverse. Quella italiana è parlamentare a livello nazionale, certamente non parlamentare ma uno strano ircocervo a livello locale (dove peraltro mancano elementi tipici del livello nazionale: rappresentanza nazionale, organi di garanzia, etc.), quella francese è semi-presidenziale e, perciò (direbbe Sartori), anche semi-parlamentare, perché pur sempre basata sulla fiducia. Ma resta il dato dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica (con poteri di governo), estraneo e stridente coi sistemi parlamentari.
Una possibile indicazione. Le primarie, che si sono diffuse, con diverse modalità, in diversi paesi europei, mostrano la corda. In una prima fase sembrano vitalizzare i partiti, poi rischiano di affossarli nelle beghe, sotto gli sguardi annoiati degli elettori. Affluenze limitate e candidati vincenti poco o punto attrattivi sono due limiti emersi nel tempo.
Ieri in Francia nessuno dei due candidati dei partiti maggiori è arrivato al ballottaggio, ed è tutto dire. Allo stesso modo Veltroni e Bersani avevano vinto le primarie e fallirono la prova elettorale e anche a Prodi non andò benissimo nel 2006, pur all’esito di primarie considerate trionfali: fu maggioranza risicata e zoppa. Spesso si chiede alle primarie troppo, ovviamente. Veltroni ad esempio non aveva alcuna chance di vincere, ma se avessero candidato un Renzi senza un processo introverso durato altri 4-5 anni? Chissà.
Le primarie sembrerebbero utili in presenza di partiti che hanno un accettabile livello di funzionalità ma non possono surrogare a lungo le carenze dei partiti, se non sono accompagnate da un duro lavoro organizzativo e culturale. Le primarie consentono agli outsider di farsi notare dai media (che potrebbero fare di più, autonomamente, seguendo i processi interni ai partiti) mentre già molto meno consentono di sconfiggere gli apparati. Tanto è vero che Macron, come noto (e a differenza di Renzi) è uscito dal Ps, senza tentare l’esperienza delle primarie. E forse, ammesso e difficilmente concesso che le avesse vinte, le primarie avrebbero potuto azzopparlo.
Renzi è un caso di successo nella conquista del partito ove la freschezza dell’outsider rispetto al gruppo dirigente (molto notevole il valore aggiunto apportato all’affluenza delle prime primarie) si è poi combinato felicemente con la convinzione maturata in spezzoni tradizionali dell’apparato che fosse la soluzione migliore e da assecondare alla seconda occasione.
Naturalmente vedremo come andranno le elezioni perché le primarie, tra l’altro, dovrebbe essere utilizzate soprattutto per questo fine. Resta che nell’assenza della capacità di un partito di far fronte alle sue funzioni fondamentali, le primarie non solo non apportano un beneficio (non escludibile a priori, ed anzi probabile, a certe ben precise condizioni) ma lasciano aperte le ferite delle disfide continue, dei riposizionamenti estenuanti dei gruppi dirigenti e, alla fine, distruggono quel poco di apparato che c’è. Forse una vera e proprio lezione che nel Pd andrebbe tenuta a mente.

Marco Plutino, Huffingthon Post