C’erano una volta / Giacomo Mancini: Lo trattarono da «làder» ma era un vero leader. E non solamente del Sud

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di Cesare Lanza

Fu oggetto di una lunga campagna denigratoria su appalti truccati, che finì nel nulla Oltre a fare moltissimo per la sua Cosenza, introdusse il vaccino anti poliomielite

Giacomo Mancini mi fece avere una proposta di lavoro inverosimile, quando ero giovanissimo, e ve la racconterò. Ma, prima, consentitemi di spazzar via subito le critiche e i pregiudizi che probabilmente vi vengono in mente. Lo so ed è vero: Giacomo Mancini fu un grande personaggio politico, con la vocazione però di occuparsi soprattutto, se non esclusivamente, degli interessi del Sud. La sua vita politica è incentrata su questa determinazione. E la sua esistenza, per gli aspetti non solo politici ma anche umani, è stata afflitta da una campagna di stampa incessante, con accuse terribili, che alla fine, giudiziariamente, non ebbero corso o si risolsero in un nulla di fatto. Però, l’aggressività dei suoi accusatori fu illimitata e, purtroppo, firmata non solo da Giorgio Pisanò e dal suo settimanale missino Candido, ma perfino da un insigne maestro di giornalismo, Enzo Biagi, al quale mi sono sempre sentito, comunque, legato da stima e ammirazione. «Si scrive leader, ma si legge làder», questo fu lo slogan persecutorio di Pisanò. Spero, e dunque mi dispiace averlo rievocato per oggettività, che la storia non ne faccia cenno, in futuro, dal momento che si è rivelato falso. Risale al remoto 1971 l’inizio della lunga campagna denigratoria, fondata sulla presunzione di appalti considerati truccati, che tuttavia non furono mai oggetto di attenzione giudiziaria. Quanto al Sud, riconosco la mia partigianeria: Mancini nacque a Cosenza (il 21 aprile 1916), la mia città, dove a mia volta sono nato, 26 anni dopo, nel 1942, in tempo di guerra. Rispetto a Mancini – vorrei chiamarlo Giacomino com’ero abituato incontrandolo da vivo – sono un calabrese atipico. Perché sono nato a Cosenza, ma ho vissuto a lungo a Genova, la mia città adottiva, e poi a Roma, a Torino, a Milano. Quando vado in Calabria, qualcuno mi sfotte come se fossi un polentone e quando sono al Nord mi dicono che sono un terrone. Sorrido dunque, al confronto con Giacomino, perché lui fu un calabrese e specificamente un cosentino, tutto di un pezzo. Perché gli sono grato, come tanti? Perché a Mancini, che era forse il più decisionista tra gli uomini politici spesso decisionisti di una volta, spetta 0 merito di aver voluto la prosecuzione dell’autostrada meridionale, da Salerno a Reggio Calabria (sì, quella famigerata e incompiuta per lustri e lustri), salvando la nostra regione da un deprimente isolamento. Riuscì, in tandem con il democristiano Riccardo Misasi, braccio destro di Ciriaco De Mita, a far accantonare il tracciato tirrenico a favore dell’entroterra, in particolare della sua (mia) Cosenza. La via interna impose il superamento della catena montuosa della Sila, cioè 40 chilometri in più, con molte gallerie: una decisione che fece lievitare il costo dell’opera, e vi sguazzarono vari speculatori. Come risarcimento ideale per i cittadini meridionali e iniziale incentivo alla mobilità, si sarebbe viaggiato – e tutt’ora è così – gratis. I lavori cominciarono nel 1964, e forse – sottolineo forse – sono finiti oggi. Se Mancini e Misasi non fossero intervenuti, Cosenza sarebbe rimasta esclusa per sempre dallo sviluppo dei collegamenti stradali. Per me perdonatemi – non è poco. Non solo: è in gran parte merito suo, se a Cosenza fu costruita un’università che è diventata un riferimento prestigioso, non solo per i giovani calabresi, ma per studiosi, insegnanti e ricercatori internazionali. Ho anche l’obbligo di dire qui che non è vero che Mancini si dedicò solo alla sua adorata Calabria. Purtroppo, questa era e resta un’opinione molto diffusa. Ad esempio, Piero Ottone, al corrente dell’amicizia con il mio compaesano, mi disse una volta con ironia snob: «Mancini? Un buon politico, ma limitato al Sud… ». E invece, no. Con la spina dorsale che aveva e la capacità di imporsi, spezzò estenuanti discussioni su un argomento delicatissimo e introdusse, da un giorno all’altro, il vaccino di Albert Sabin contro la poliomielite. A dispetto di forti resistenze burocratiche e di interessi economici consolidati. E ora vi racconto un episodio che all’epoca mi lasciò senza fiato. Giacomo Mancini voleva e poi l’ottenne – un quotidiano a Cosenza, per la sua città. In Calabria all’epoca non c’erano quotidiani locali o regionali, dominante era un’ottima testata, La Gazzetta del Sud, tutt’ora in auge, che si stampava a Messina e ai calabresi dedicava alcune edizioni di cronaca. Giacomo aveva trovato nel petroliere Nino Rovelli uno sponsor, come editore, importante. Erano i primi anni 70 (non ricordo la data esatta) di un incontro che Mancini organizzò, in un caffè di via Veneto a Roma, con Antonio Ghirelli, che dirigeva il Corriere dello Sport, e con il petroliere. Mancini voleva che Ghirelli lasciasse il quotidiano sportivo e andasse a dirigere II Giornale di Calabria. Passavo da Roma – lavoravo a Genova con Piero Ottone, al Secolo XIX e Ghirelli senza dirmi nulla mi volle con sé. Dopo una breve conversazione, Antonio rifiutò l’offerta e, sorprendendomi, disse: «Caro Giacomo, caro Rovelli: fate largo ai giovani, ho portato con me uno dei miei migliori allievi. Il direttore potrebbe essere lui e non ve ne pentireste…». Mancini mi conosceva bene e replicò: «Per me va benissimo». E Rovelli: «Se sta bene all’onorevole, va bene anche per me». Io mi dichiarai sbalordito ed ero sincero, non avevo neanche 30 anni! Rovelli, sbrigativo, tagliò corto: «Domani, a quest’ora, io sarò qui, per la colazione; e vi aspetto. Se il dottor Ghirelli cambia idea, sarò felice. Se il giovane Lanza accetta, per me va bene. Aspetto uno dei due, 0 tutti e due». Risultato: Ghirelli non cambiò idea e non andò, e per parte mia non mi permisi certo di presentarmi, in solitudine. Un bel po’ di tempo dopo, il 31 luglio 1973, il quotidiano nacque, stampato a Piano Lago, vicino Cosenza, e fu diretto da un ex psiuppino, varesino, Piero Ardenti. Il redattore capo era Paolo Guzzanti. Guzzanti, che ha definito Mancini «un eroe socialista», nella sua biografia ha dedicato belle pagine a quel periodo. «Giacomo era soave, attento, sapeva tutto quel che succedeva in economia e nella cultura. Grande amico di Sciascia, di Pannella, di Cossiga e di Gaetano Afeltra – che assunse il figlio Pietro a II Giorno». Paolo racconta di essere stato spesso ospite di Giacomo all’Aria Rossa, la bella casa di campagna, che Mancini aveva ereditato. E Giacomo, sempre secondo il racconto di Guzzanti, si esibiva come buongustaio e generoso ospite: «In tavola i funghi porcini, olive, carne di agnello, formaggi silani, sopressate e ricotte, dolci di ricette millenarie, farciti con mandorle e noci, nocciole e miele». Che bei tempi! Il premio Sila, vinto anche da me, andò a Nord e Sud uniti nella lotta, scritto dal calabrese Vincenzo Guerrazzi, operaio all’Ansaldo di Genova.
Il volume fu sequestrato dall’allora procuratore della Repubblica di Catanzaro, «per uso di linguaggio postribolare». Guerrazzi, che conoscevo bene, ricco di un talento indomabile, aveva osato scrivere: «Ciccio Franco, va fa’ nculo». Tutto qui: sembra incredibile, oggi. Mancini fu segretario del Psi dal 1970 al 1972, poi nel 1976 fu il padrino strategico dell’ascesa di Bettino Craxi, con il quale si urtò quasi subito. Ministro nei governi di centrosinistra, sanità, lavori pubblici, Mezzogiorno – e nove volte eletto in Parlamento, la prima nel 1948. Polemista per temperamento, amico 0 nemico per istinto, a pelle. Alla fine, sindaco di Cosenza per quasi un decennio. Autonomista convinto, nenniano, riformista, sempre garantista. E in prima linea per la conquista di diritti civili, a cominciare dalla battaglia per il divorzio. Mai anticomunista, però ostile all’idea di Francesco De Martino che i socialisti avessero il compito di favorire l’evoluzione del Pc e il suo avvicinamento al governo. Ministro anche nei governi di Moro e di Rumor. Con un grave errore di valutazione, direi un infortunio: il progetto del quinto centro siderurgico, a Gioia Tauro, nella sua Calabria, si rivelò un disastro. Alla radice della mia stima, anche il suo atteggiamento – che gli procurò altre ondate di odio dai partiti allora dominanti, democristiani e comunisti – negli anni di piombo: fu favorevole a possibili trattative con le Brigate rosse per salvare la vita di Aldo Moro. Da sottolineare il carisma straordinario, che lo favorì ininterrottamente, fino agli ultimi anni, per l’elezione a sindaco di Cosenza. Il punto più alto fu raggiunto nel 1968, quando il Psi raggiunse il 18% contro il 14% nazionale, e diventò il secondo partito, staccato dalla De di soli 4 punti. Mancini ebbe la bellezza di 109.000 voti di preferenza. Il figlio Pietro ha pubblicato di recente un gran bel libro, Mi pare che si chiamasse Mancini, editore Pellegrini, ricco di aneddoti. Con lui, Giuliano Amato e altri ne ho parlato, in una presentazione alla Camera. Mi ha colpito il rispetto espresso da Amato, personaggio di elogi non certo facili. Giacomo si definiva un socialista meridionalista. Tra le varie definizioni mi piace una attribuitagli in morte, nell’aprile del 2002, dal Corriere della Sera: «L’anima scomoda del socialismo». Quanto a Sabin, in un’intervista ringraziò «quel vostro ministro socialista, mi pare che si chiamasse Mancini…», la frase che ha dato il titolo al libro di Pietro.
Infine, per cosa mi piace ricordarlo? Come scrive Pietro, non calcolava mai le sue mosse pensando alla sua convenienza personale. Poi, per la curiosità inesauribile, il desiderio di conoscere, la voglia di sapere, il bisogno di ascoltare. Aggiungerei: solo tuttavia con chi gli risultava simpatico. Era anche un seduttore.
Sandra Milo, nel suo libro Amanti, ricorda di aver avuto una relazione con lui (ma anche con Craxi e Giuliano Vassalli), per poter godere evidentemente di tutte le correnti senza far torto a nessuno. Ed è divertente ricordare che Sandrocchia contesta la diceria secondo cui gli uomini di destra trombano meglio di quelli di sinistra. «Non era vero nella prima Repubblica e non è vero adesso». È giusto ricordare che Vittoria, la moglie di Mancini, era straordinaria, femminista ante litteram, di grande curiosità intellettuale pur non avendo studiato granché. I miei ricordi più belli risalgono, tra gli anni Sessanta e Settanta, al tempo in cui nella casa romana di Giacomo si potevano incontrare Francesco Rosi, Nino Manfredi, Sofia Loren… Non ero che un ragazzetto, un cronista principiante. Ma Giacomo mi riceveva con simpatia. Ricordo un suo momento di amarezza, quando Sandro Pertini designò Spadolini come premier, per la prima volta un laico. «Se avesse avuto più coraggio, poteva anche pensare a me», mormorò.

Cesare Lanza, La Verità