C’erano una volta / Giovanni Leone: lo sommersero di calunnie e anch’io feci la mia parte. Ora ammetto: sono pentito

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di Cesare Lanza

È stato il primo presidente a dimettersi bersagliato da Camilla Cederna, dai salotti e dalle maldicenze (inventate) sulla moglie. Ma era soltanto una vittima innocente

Nelle domeniche precedenti ho scritto di Bettino Craxi e Amintore Fanfani, di Marco Pannella e Sandro Pertini, poi di Francesco Cossiga. La rassegna «C’erano una volta…» riguarda i personaggi politici che ho incontrato e conosciuto da vicino. Oggi però vi propongo Giovanni Leone, anche se non l’ho conosciuto, o quasi. Ma l’occasione è preziosa per uscire, spero, dalle tenebre di un rimorso che mi pesa addosso da più di quarant’anni, e chiedere scusa. Non è una semplice questione personale, ma si inquadra in una vicenda che ormai è entrata nella storia e ha assunto significati importanti, politici e morali, di costume.
Giovanni Leone, eletto presidente della Repubblica il 24 dicembre 1971 (al ventitreesimo scrutinio, con 518 voti, grazie al Msi e ai repubblicani di La Malfa), si dimise il 15 giugno 1978, con sei mesi di anticipo rispetto alla scadenza di legge. Perché? Da alcuni anni era sotto tiro per alcune nebulose, benché suggestive, accuse che lo coinvolgevano nell’inquietante scandalo Lockheed. A capo di questa devastante e aggressiva campagna c’era una famosa giornalista, Camilla Cederna, dell’Espresso. Camilla aveva anche pubblicato un libro terribile, per esprimere le sue accuse a Leone a pretenderne le dimissioni. Nel 1976 dirigevo, a Milano, il Corriere d’Informazione. E, stolidamente, mi lasciai coinvolgere nell’esercito degli accusatori. Potrei appellarmi a varie attenuanti e lo faccio, arrossendo, però demolendole, com’è giusto, per primo. Ero molto giovane, avevo solo 33 anni. Ma la più grande casa editrice dell’epoca, la Rizzoli, mi aveva scelto per affidarmi la responsabilità di una testata importante, l’edizione pomeridiana del Corriere della Sera. E io, in quella occasione, non dimostrai né maturità né senso di responsabilità. Poi: in quegli anni era di moda, dilagante, un assurdo e spietato sinistrismo, sostenuto, nel giornalismo e nella cultura, da un incredibile esercito di grandi firme, che avevano sottoscritto un manifesto per chiedere le dimissioni del presidente. E i politici erano schierati, perfino i garantisti Pannella ed Emma Bonino, che tuonavano più degli altri. Era una inverosimile (a ripensarla oggi) situazione di follia collettiva. Ma io non ebbi né la capacità di ragionare con mente libera e indipendente né, tanto meno, la forza per oppormi. Infine, ero immerso nella sciocca vita salottiera che caratterizzava la Milano elitaria dell’epoca. Lo ero, per amore: convivevo con una donna (bella, intelligente e affascinante) protagonista di quei salotti. Ma che noia! Ogni sera un ricevimento mondano, con i salotti infestati dalle chiacchiere e dall’ambizione, da parte delle padrone di casa, di esibire tra gli invitati non solo i più scatenati filosofi – col sedere su poltrone comode – di un’agognata «rivoluzione», i sessantottini estremi, ma perfino i filoterroristi (le Brigate Rosse, fuori, infuriavano). La Cederna, ammirata da tutti con devozione totale 0 convenzionale, era onnipresente, un riferimento fondamentale. E io? Ammiravo Camilla come inarrivabile cronista, lieve, del costume. Ma non ebbi la lucidità per prendere le distanze dai suoi inediti estremismi politici. Presumo oggi che alla radice della sua aggressività ci fosse una sorta di competitività con Oriana Fallaci, dominante e più popolare di lei. Ma all’epoca non mi aprirono gli occhi neanche gli sberleffi che il mio adorato Indro Montanelli indirizzò sia verso la Cederna, sia verso Giulia (che lui ribattezzò Giuda) Maria Crespi, proprio in un’intervista che mi concesse per annunciare la rottura col Corrierone (di cui la Crespi era proprietaria). Insomma, ero cieco e sordo. Per quel che riguardava la mia vita privata, alla fine non riuscii a reggere a quelle soffocanti serate mondane e la mia relazione sentimentale si esaurì; dell’offensiva verso l’inerme Leone, purtroppo, non capii affatto l’insensatezza. Ci fu anche un grottesco episodio, solo in apparenza divertente, della mia adesione alla campagna di Camilla. Un giorno titolai il Corinf caratteri di scatola: «Tempesta sul Quirinale», in prima pagina. E proprio in quello stesso giorno (ma io non lo sapevo) Andrea Rizzoli, presidente della casa editrice, si trovava a Roma, ricevuto da Leone in visita ufficiale. Il presidente non leggeva il Corinf, Rizzoli gliene parlò con orgoglio. Gentilmente Leone suonò il campanello e chiese che gli portassero il giornale.
Potete immaginare lo sconcerto e l’imbarazzo di tutti e due, presidente ed editore, alla vista di quel titolo.
Andrea Rizzoli era un uomo timido e corretto, rispettoso delle prerogative dei direttori. Non mi disse né mi rimproverò nulla. Il resoconto mi fu concesso dal figlio, Angelo Rizzoli, che aveva un tale senso dell’umorismo da riuscire perfino a riderne. Il 15 giugno 1978, uno dei giorni più bui della Repubblica, Benigno Zaccagnini, sottosegretario, e Giulio Andreotti, presidente del consiglio dei ministri, comunicarono a Leone che la Democrazia cristiana riteneva di non poter più sopportare il peso delle polemiche legate al suo nome e al suo ruolo nel caso Lockheed. Il giorno prima Berlinguer per il Pci aveva chiesto, gesto senza precedenti, le sue dimissioni. Dopo tanto tempo, la ricostruzione dell’evento è avvolta nella confusione. Si dice che i rappresentanti della Dc ingiunsero a Leone di dimettersi, subito (domenica scorsa ho scritto che Cossiga mi confermò la sua nota dichiarazione: «Se fosse successo a me, avrei chiamato i carabinieri»).
Andreotti però, vent’anni dopo, in una trasmissione di Giovanni Minoli, disse invece che la Dc era disponibile a difendere Leone, ma sarebbe stato il presidente, stremato dalle polemiche, a dire che aveva deciso di dimettersi. È corretto precisare che L’Espresso non è mai stato accusato di aver pubblicato notizie false o calunniose. Le sue inchieste erano incentrate soprattutto sulle dichiarazioni fiscali e sui redditi della famiglia Leone, proprietaria della villa Le Rughe, a Formello, a pochi chilometri da Roma. Rilievi politici, non consistenti e mai affrontati sul piano giudiziario. Ma eccoci al punto principale, la violenta bufera del caso Lockheed. Di che cosa si trattò, in sintesi? Lockheed era un’azienda americana, produttrice di aerei, che ammise – nel 1976 – di aver corrotto politici di tanti Paesi, al fine di ottenere incarichi e importanti commesse. Anche in Italia, intorno al 1968. E qui comincia il polverone. In quell’epoca a capo dei governi c’erano Mariano Rumor, Giovanni Leone e Aldo Moro. Ma è chiaro che altri personaggi politici potessero essere sospettabili. Invece – mentre Rumor e Moro non furono mai investiti da accuse – piacque come bersaglio il presidente della Repubblica, già nel mirino per vari pettegolezzi e comportamenti: il fuoco politico e mediatico si accese su di lui. In seguito Leone fu scagionato pienamente da accuse e insinuazioni, senza la minima prova. Riabilitazione totale. Il tribunale decise che le copie residue del libro della Cederna (Giovanni Leone: la carriera di un presidente) fossero distrutte: ne erano state vendute 700.000 copie. E non fu mai accertato se davvero un caso di corruzione ci fosse stato e chi fossero, nel caso, i politici italiani corrotti. Risibili oggi appaiono i tentativi di allora di attribuire a Leone – chissà perché – il riferimento in codice, usato dalla Lockheed, di Antelope Cobbler (Antilope ciabattina), per mascherare l’identità, si disse, del politico che avrebbe ricevuto la tangente. Vorrei fermarmi qui. Ricordo solo ai più giovani che Leone (Napoli 1908 -Roma 2001) fu un grande avvocato penalista, un eccellente giurista (con più di 100 pubblicazioni), docente alle università di Napoli, Bari e Roma. In politica, fondatore della Democrazia cristiana in Campania, presidente della Camera dal 1955 al 1963, e poi due volte capo, nel 1963 e 1968, di governi di transizione, definiti «balneari». E, infine, capo dello Stato. Ancor oggi mi chiedo quale fu il «vero» motivo per cui Giovanni Leone fu brutalmente indotto a dimettersi. La mia opinione è che la preoccupazione di Dc e Pci, i partiti allora imperanti, era legata alla posizione del presidente nei giorni del rapimento di Aldo Moro, e poi del suo assassinio. Leone era favorevole alla trattativa, pur di salvare la vita di Moro non fece mistero di essere pronto a firmare il rilascio dei terroristi in carcere, come richiesto dalle Brigate Rosse. Non mi interessa infine, ora che ho recuperato la ragione, il maleodorante bouquet di perfidie che gli furono inflitte. Le maldicenze – tutte inventate – sulla bellissima moglie, Vittoria Michitto, di 21 anni più giovane di lui («mi travolse col suo temperamento, avevo solo 18 anni», confessò lei). Già nel 1964, quando fu candidato al Quirinale per la prima volta, i servizi segreti pedinarono la coppia, perfino in una crociera. Nessun riscontro. Solo fuffa, e la first lady ne era amaramente al corrente. Aveva perduto il primo figlio, di quattro anni, per difterite: «Dopo quel giornalista Paola Severini, fuori dal coro, le ha dedicato un memorabile capitolo in un libro dedicato alle donne. E poi i cosiddetti «tre monelli», ovviamente nel mirino di Camilla Cederna, presi di mira per i loro comportamenti al Quirinale? Vero è che il presidente li adorava e addirittura voleva il figlio Mauro Leone, colpito dalla poliomielite, al suo fianco addirittura negli incontri ufficiali: solo Moro, con un battito di ciglia, gli fece capire che non era opportuno. Che importanza hanno, queste fesserie irrilevanti? Leone era un napoletano spontaneo e istintivo. E superstizioso, ancora si ricorda il gesto delle corna, che rivolse agli studenti che gli auguravano la morte. Sconveniente, certo. Ma di fronte alla persecuzione che dovette subire, che cosa mi importa di queste futilità? Questo giornale si intitola La Verità e la verità è che Leone fu una vittima innocente, in tempi sciagurati, e io non ebbi la lucidità, e forse anche il coraggio, per capire e difenderlo.

Cesare Lanza, La Verità