Il rapporto Freedom on the Net denuncia: da sei anni il livello di libertà è in calo, il 60% degli utenti vive infatti in posti dove per certi tipi di contenuti si rischia la prigione. Nel mirino le chat, con WhatsApp bloccato in 12 Paesi, e i social network
DUE TERZI degli utenti della rete, cioè di quei 3,5 miliardi di persone che possono in qualche modo accedere a internet, vivono sotto lo scacco della censura. Il punto è che, stando ai numeri appena diffusi dal think tank indipendente Freedom House di Washington D.C. nel suo rapporto Freedom on the Net, la situazione non migliora da sei anni. Anzi, disegna ogni dodici mesi un quadro più fosco. In particolare all’aumentare dell’invasività dei governi e delle amministrazioni preposte rispetto ai social network e alle chat.
I fronti caldi: chat e social network. Quelli, infatti, sono stati i fronti caldi del 2016. WhatsApp, per esempio, è stato bloccato o fortemente limitato nel corso dell’anno in 12 Paesi sui 65 presi in analisi (in rappresentanza dell’88% dell’utenza mondiale connessa) più di qualsiasi altra applicazione simile. Musica non troppo diversa per Telegram, Viber, Messenger, Line o Google Hangouts. Dieci Paesi hanno ristretto l’accesso a piattaforme di videocomunicazione come FaceTime e Skype.
In quasi 30 Paesi si sono invece verificati arresti di persone per la pubblicazione di contenuti politici, religiosi o relativi ad alcuni aspetti della vita sociale sottoposti a strettissimo controllo. Undici Paesi hanno sbattuto persone in cella per articoli o post distribuiti su WhatsApp, nove per aver fatto ricorso a Twitter e 12 a YouTube. Democrazie o regimi autoritari, sul fronte legislativo non c’è troppa differenza: almeno 14 Paesi hanno approvato leggi che, coperte dalla necessità di contrastare il terrorismo, produrranno effetti negativi e sproporzionati sulla libertà d’opinione o sulla privacy con serie conseguenze per le opposizioni politiche e la stampa. Seminando poco di buono per i prossimi anni. In Russia, per esempio, un dispositivo approvato lo scorso giugno richiede a tutti i “gestori delle informazioni online” di concedere al Servizio di sicurezza federale gli strumenti necessari a decrittare ogni elemento trasmesso fra le persone. Insomma, una backdoor in piena regola al netto della necessità di conservare i contenuti degli scambi fino a sei mesi e i metadati per tre anni.
I peggiori dell’anno. La peggiore performance dell’anno è stata quella della Cina, sempre più schiacciata sotto il peso delle nuove politiche di controllo volute dal presidente Xi Jinping. Gli ultimissimi provvedimenti dedicati allo streaming stanno per entrare in vigore: da dicembre sarà vietato diffondere notizie “live” da fonti non approvate dal governo. D’altronde nella repubblica popolare diffondere “indiscrezioni” di vario tenore sui social media può comportare sette anni di prigione. Ma il quadro è ancora più drammatico: il documento denuncia per esempio che alcuni utenti appartenenti a minoranze religiose sono stati imprigionati solo per aver visto dei video sui telefonini.
Retrocessione per il Brasile, che da territorio etichettato come libero è passato a parzialmente libero a causa dei blocchi temporanei per WhatsApp legati alla mancata collaborazione in alcune indagini ma anche per la morte di due blogger uccisi dopo aver denunciato casi di corruzione locale. La Turchia è stata definitivamente inserita fra i Paesi non liberi, specialmente per la stretta nel controllo sui social network e per le incriminazioni a numerosi utenti dopo il fallito golpe dello scorso luglio. Il bilancio è in effetti sconfortante: solo 14 Paesi hanno migliorato la propria condizione e in ogni caso con passi in avanti davvero limitati come in Zambia, dove c’è qualche problema in meno rispetto agli anni scorsi, in Sudafrica, dove questi progressi si devono all’attivismo di gruppi di attivisti e non certo all’azione del governo, o in Sri Lanka, sempre per l’opposizione al governo locale.
I numeri: solo in 17 Paesi internet è libero. Nel complesso, fra i 65 Paesi messi sotto la lente da Freedom House solo in 17 i cittadini sono liberi di utilizzare la rete in tutte le sue potenzialità e in piena libertà. Il sogno di una ragnatela democratica che connettesse il pianeta è dunque, al momento, rimasto tale. In 28 stati gli utenti sono parzialmente liberi mentre in 20 la censura è totale. L’Italia è nel primo gruppo, si colloca all’11esima posizione assoluta con un risultato di 25 punti (dove 0 significa maggiore libertà e 100 minore libertà). Al vertice figurano Estonia e Islanda con 6 punti, in coda la Cina con 88, la Siria e l’Iran con 87, l’Etiopia con 83 e l’Uzbekistan con 79. Il 60% della popolazione mondiale vive infatti in posti dove gli utenti sono stati imprigionati o arrestati per aver pubblicato alcuni tipi di materiali. Ancora: il 47% risiede in luoghi in cui l’insulto religioso può condurre in carcere e il 33% in Paesi in cui discutere di questioni relative all’omo o alla transessualità può essere oggetto di repressione o arresto mentre il 38% naviga da posti in cui i governi staccano spesso i collegamenti telefonici mobili o la rete per questioni politiche.
I contenuti nel mirino della censura. Critiche alle autorità (censurate in 49 Paesi su 65), sospetti casi di corruzione (in 28 su 65), notizie e opinioni su conflitti, terrorismo o proteste (in 27 su 65), commenti sui social rispetto a catastrofi naturali o questioni storico-politiche, blasfemia e contenuti legati alla religione, notizie su minoranze etniche. Questi i punti più colpiti. Senza dimenticare le foto e i video, divenuti nel corso degli anni la principale preoccupazione dei censori di mezzo mondo. Basti pensare a Instagram, bloccato dal Vietnam insieme a Facebook durante le proteste sull’inquinamento ambientale, la moria di pesci e il disastro ecologico causato dal Formosa Plastic Group, oppure alle vignette satiriche o ai cosiddetti meme, i contenuti virali e bizzarri che spesso canzonano i potenti di turno. Un esempio per tutti? In Egitto un fotomontaggio raffigurante il presidente Al Sisi con le orecchie da Topolino è costato tre anni di prigione allo studente 22enne che l’aveva pubblicato su Facebook. Ma non mancano altre manifestazioni di violenza per l’immagine scalfita o per il lavoro giornalistico: è accaduto in Kenya al reporter Yassin Juma o ancora in Egitto ad Ali Abdeen. In Russia lo scorso dicembre una corte ha comminato la condanna più severa – cinque anni di galera – al blogger Vadim Tyumentsev che aveva pubblicato dei video sui separatisti filorussi nell’Ucraina orientale. Il rapporto segnala anche situazioni del tutto surreali: in Pakistan è bastato un Mi piace a un post considerato blasfemo per spedire in prigione due uomini. Per 13 anni.
D’altronde ogni Paese ha il suo menu di censure personalizzato: se il blocco di contenuti sociali, politici o religiosi fa la parte del leone in molti Paesi dei due gruppi (non liberi e parzialmente liberi), dal Bahrain all’India passando per la Corea del Sud, non mancano diverse fattispecie che diversificano le minacce per la popolazione: dai blocchi temporanei delle applicazioni più popolari (Armenia, Giordania, Malesia) a quelli dell’intera rete infrastrutturale di telecomunicazione (Bangladesh, Egitto, Turchia). Chissà cosa capiterà l’anno prossimo agli Stati Uniti (quarta piazza, 18 punti), che quest’anno hanno fatto segnare un leggero miglioramento dovuto all’approvazione nel 2015 del Freedom Act che ha introdotto alcuni limiti alla raccolta indiscriminata dei metadati delle comunicazioni da parte delle agenzie di sicurezza come la Nsa. La vittoria del magnate Donald Trump, e le sue eventuali decisioni su temi complessi ma dirimenti come cybersicurezza, crittografia, gestione della rete, sorveglianza, potrebbero riservare (sgradite) sorprese per il 2017.
La Repubblica