Il ministro dello Sviluppo economico: «Ma al referendum vincerà il sì, ne sono convinto». La globalizzazione dopo l’elezione di Trump? «Non si fermerà. L’Occidente deve riequilibrarla non coltivare l’illusione di poterla cancellare».
Ministro Carlo Calenda, cosa succede al governo se al referendum vince il No?
«Vincerà il Sì, ne sono convinto».
Ma se vince il No?
«È una cosa che dipende dal presidente del consiglio e dal Capo dello Stato. La mia opinione è che Renzi debba rimanere al suo posto perché c’è ancora tanto lavoro da fare per un Paese che ha appena iniziato a recuperare il terreno perso durante una crisi che per noi ha avuto effetti molto più profondi. Tra l’altro siamo ancora in un momento di instabilità geopolitica ed economica».
Tra i nomi che circolano per un ipotetico governo di transizione c’è anche il suo.
«È la decima volta che lo ripeto: è una cosa che non esiste. La stagione dei governi tecnici è finita, ed è un bene. E poi faccio il ministro dello Sviluppo economico da pochi mesi, devo ancora dimostrare di saperlo fare».
Renzi sarebbe intenzionato a rifiutare un reincarico. Per poi accettarlo dopo che saranno falliti i tentativi di formare un governo diverso. Non ci sono alternative a lui?
«La questione non sono le alternative. Renzi, secondo me, è la migliore soluzione per completare il percorso di riforme iniziato e che aspettavamo da 30 anni. Ha dimostrato di avere coraggio per cambiare il Paese. Dopo il referendum dovrà dimostrare di saperlo tenere unito nel cambiamento. È una sfida che si sta rivelando difficilissima in tutto l’Occidente ma con la vittoria del Sì dovrà aprire una fase nuova».
Difficile farlo dopo i toni usati in queste settimane.
«Direi necessario e inevitabile per ricominciare a lavorare insieme dal 5 dicembre. Intanto lasciamo perdere almeno l’ultima settimana: le liti interne al Pd, gli investitori, le agenzie di rating, le profezie di sciagura, le accuse di derive autoritarie. Tutte cose che con la nostra Costituzione non c’entrano nulla».
Ma è vero che è stato lei a suggerire a Renzi di rimettere la bandiera europea?
«Assolutamente no, ma sono contento che l’abbia fatto. Per quanto troppo spesso distante e debole, l’Ue è la nostra casa, bisogna starci dentro e lavorare per renderla più solida: significa metterci tutti in grado di affrontare il mondo».
Però abbiamo detto che potremmo bloccare il bilancio dell’Unione. Non rischiamo di far irrigidire la commissione sulla manovra?
«No, perché quella è la mossa più europeista che potevamo fare. Ci vuole più Europa nei capitoli strategici, come l’immigrazione o il programma Horizon per la ricerca. Abbiamo detto no ai compromessi al ribasso».
Non sarà solo un po’ di antieuropeismo di facciata per recuperare qualche voto in vista del referendum?
«Non direi proprio. Tra l’altro la maggioranza degli italiani è convinta che rimanere nell’Europea e nell’Euro sia un valore. Ma vogliono che cambi e sostengono il governo quando lo chiede come può e deve un Paese fondatore. In un mondo globalizzato quella europea è la dimensione minima per contare».
Ma forse l’era della globalizzazione sta finendo. Donald Trump vuole bloccare gli accordi commerciali. Non è un segnale?
«La globalizzazione non si fermerà ma c’è una partita per capire quali standard la governeranno. Lo dimostra il fatto che i cinesi hanno subito rilanciato offrendo ai Paesi del Ttp di entrare nel loro accordo di libero scambio. L’Occidente deve riequilibrare la globalizzazione non coltivare l’illusione di poterla cancellare».
In Italia molti tifano per lo stop all’accordo con gli Usa.
«Non capisco su quali basi. Oggi gli Usa sono il nostro primo mercato al di fuori dell’Ue. L’anno scorso il nostro export è cresciuto del 20%. Le loro barriere colpiscono settori dove siamo fortissimi: agroalimentare, tessile, ceramica, gioielli. Da un accordo ne avremmo solo da guadagnare. Non mi sembra il caso di trascinare anche questo tema in campagna elettorale».
Lorenzo Salvia, il Corriere della Sera