I social dietro i flop dei sondaggisti

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mauro masiUna delle poche cose su cui sono tutti d’accordo nella miriade di commenti all’elezione di Donald Trump a presidente Usa è il flop dei sondaggisti. Ed è vero, così come è altrettanto vero che questo clamoroso flop segue quello sulla Brexit e i tanti errori di previsione sulle più recenti elezioni italiane, francesi e tedesche.
Che sta succedendo? I sondaggisti sono improvvisamente diventati tutti asini e in tutto il mondo o c’è qualcosa di esogeno che ha modificato il loro lavoro negli ultimi anni? Ad avviso di questa rubrica qualcosa c’è ed è l’esplosione di internet e in particolare il vorticoso affermarsi dei social network. Questi stanno abituando la gente, da un lato, a partecipare direttamente in prima persona senza mediazioni di alcun tipo anzi vedendo con sfavore chi vuole anticipare le decisioni personali e, dall’altro, a dire e scrivere qualunque cosa (anche a mentire pubblicamente) con la certezza che non se ne avrà alcuna conseguenza. Uno scenario da incubo per qualunque sondaggista perché se le rivelazioni sul campo (i famosi «fields») non sono in qualche modo aderenti alla realtà non c’è algoritmo e/o calcolo delle probabilità che possa migliorare la previsione. Per cui aspettiamoci, almeno ancora per qualche tempo, flop clamorosi nei sondaggi e nelle previsioni e ciò al di là della competenza e della serietà dei tanti validi professionisti del settore.

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Il grande oscuramento di 152 siti di streaming illegale (principalmente di partite di calcio e di film) ordinato pochi giorni fa dalla procura di Roma e attuato dai nuclei speciali della Guardia di finanza è da segnalarsi non solo per le dimensioni (che ne fanno il maggiore sequestro di questo tipo mai avvenuto in Italia) ma anche per alcune novità giuridiche. Le autorità, infatti, hanno imputato ai gestori dei siti interessati (circa la metà dei quali italiani) non solo le violazioni del diritto d’autore ma anche reati tributari e autoriciclaggio e ciò in connessione ai proventi pubblicitari ricavati dalla loro attività illegale il che, tra l’altro, comporta sanzioni molto più severe fino ad otto anni di carcere.

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Nonostante le proteste e le petizioni di tante aziende high tech di mezzo mondo, lunedì 7 novembre la Cina ha definitivamente approvato la nuova legge per garantire la cyber-security nel paese. Le nuove norme, che saranno operative solo dalla prossima estate sono volte, secondo fonti ufficiali, «a bloccare i cyber-attack e ad aiutare a prevenire atti di terrorismo». Il timore della Comunità internazionale è che invece possano essere usate per estendere il già forte controllo governativo su Internet in Cina. In realtà è presto per dirlo perché la legge così come è stata approvata e per quanto se ne sa, fissa criteri abbastanza generali e bisognerà valutare come verrà declinata nei regolamenti applicativi. Quello che si può dire sin d’ora è che sicuramente gli utenti individuali dovranno registrarsi con il loro vero nome per usare in Cina qualunque servizio di messaggeria online. È tutto da discutere se ciò sia (di per sé ovviamente e senza estendere alcun giudizio all’insieme della legge) un male visto cosa sta accadendo nel mondo della rete grazie, direttamente o indirettamente, all’anonimato.

Il punto di Mauro Masi, Italia Oggi