Il digitale cambia clienti e marchi

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Milano Fashion Global Summit/ L’e-commerce cresce ancora. Abbigliamento in testa. Il digitale cambia clienti e marchi. Non basta la visibilità, alle aziende è chiesta credibilità

Fashion ecommerceIl lusso non sta tramontando, le logiche che lo hanno governato per tanto tempo non sono scomparse, ma c’è un mondo nuovo di consumatori che ne ha dettato di ulteriori e ignorarle sarebbe il vero problema. Alla base di questo cambiamento? Il digitale, ovviamente, che sta portando al lusso 4.0 (la quarta rivoluzione industriale dove il digitale permea tutto), e che con l’e-commerce sta allargando le possibilità, se è vero che gli acquisti online stanno crescendo a un ritmo maggiore rispetto a quelli offline.
Al Milano Fashion Global Summit 2016, organizzato ieri nel capoluogo lombardo da Class Editori (che partecipa al capitale di questo giornale), si sono delineati i molti trend della moda e del lusso alla luce della trasformazione digitale, anche se una tendenza emerge in particolare: la ricerca dell’eccellenza da parte dei consumatori che passa per il vero, per la sostenibilità, per la fiducia.
«Per il lusso 4.0 il classico posizionamento sul mercato è ormai meno importante», ha spiegato Francesco Morace, presidente del Future Concept Lab, «serve conoscere le caratteristiche dei nuovi consumatori.
E allora si scopre che resta la classica catena del valore, ma che è necessaria una catena della fiducia». Morace invita a mettere al centro del racconto dei marchi «la vita vera, le passioni inaspettate, gli affetti profondi» e di «pensare locale e agire globale», al contrario del modello di globalizzazione americano, grazie a artigianato, enogastronomia.
Il lusso, poi, deve essere tempestivo: i consumatori vogliono ciò che vedono velocemente, sia online che offline. Infine c’è l’aspetto della sostenibilità, dato dalla trasparenza dei processi e dalla loro tracciabilità.
C’è la logica dell’estetica che ha dominato il lusso dal 1950 al 2000 e la logica dell’etica che vale tutt’ora: la seconda non ha superato la prima, ma ha portato nuove dimensioni al lusso. Così come le logiche della visibilità sono state affiancate da quelle della credibilità.
I freddi numeri mostrano un altro aspetto di come il digitale stia intervenendo. A fronte di un Pil planetario che cresce del 3%, ha detto il presidente di Netcomm Roberto Liscia, l’e-commerce aumenta del 17,5% nel mondo e del 13% in Europa (505 miliardi di euro le previsioni per il 2016). E nel Vecchio Continente le maggiori vendite sono appunto su abbigliamento (20,3%) e scarpe (10,8%). L’Italia è ancora dietro rispetto a paesi come Regno Unito e Francia, ma in 5 anni ha registrato il raddoppio degli acquirenti arrivando a 18,8 milioni a marzo 2016 e con l’abbigliamento in crescita del 25%. Un messaggio, però, ai brand, perché una volta fatto il primo acquisto online il cliente tende a tornare sullo stesso sito: «per questo chi tardi arriva (online, ndr) male alloggia», ha detto Liscia, «perché si riacquista su merchant già sperimentati».
Ci sono alcune forze, secondo Umberto Basso, vicepresidente di H-Art, che stanno modellando il business. Fra le altre cose nel suo elenco mette l’artigianalità, la necessità di mettere nel digitale la stessa attenzione che si ha per i prodotti. Accanto a questo, la forza dei contenuti, in particolare i video; i benefici dei dati usati per migliorare i prodotti. I brand dovrebbero poi eliminare qualsiasi frizione che impedisca ai consumatori di muoversi fra un canale e l’altro, perché in verità i canali come compartimenti stagni ormai non esistono più. E alla base di tutto, serve creare momenti di esperienze magiche.
Alcuni trend, poi, si discostano dall’immagine tradizionale che si ha del fashion. Del fatto che anche alla moda si richieda sostenibilità non ci si sorprende. Ma Sonia D’Arcangelo, innovation researcher di Intesa Sanpaolo, ha sottolineato anche la strategia «vedi e compra subito», che sta portando molti stilisti a rendere disponibili immediatamente le proprie collezioni anziché sei mesi dopo la sfilata. E che dire della «fine dell’era degli stilisti»? Ovvero «una nuova era, in cui i direttori creativi non sono più creatori di moda, ma persone la cui competenza principale è la capacità di definire e comunicare un punto di vista forte su più canali», come i social network.
Chi sicuramente ha unito le capacità degli stilisti tradizionali con una padronanza eccezionale dei social network è stato Olivier Rousteing, il direttore creativo di Balmain intervenuto al Summit in collegamento da Wall Street: Rousteing ha un seguito di 4 milioni di persone sui social e sta traghettando verso la nuova era un marchio tradizionale come Balmain.
Chiaro che quanto detto fin qui è in realtà la parte visibile di una trasformazione più profonda delle aziende. Stefano Rosso, a.d. di Otb (il gruppo creato da Renzo Rosso con Diesel e altri marchi) ha spiegato che l’azienda investe da tempo nel digitale ma il cambiamento radicale è avvenuto negli ultimi cinque anni: «abbiamo una funzione digitale centralizzata, che sviluppa conoscenza, ricerca, innovazione dal centro del gruppo. Poi mettiamo a disposizione dei vari marchi le piattaforme, e sono loro che sviluppano autonomamente la user experience». In fondo la famiglia Rosso, Otb a parte, investe da tempo in innovazione. Lo ha fatto con Yoox, H-Farm e altre aziende, compresa la start up Depop fondata da Simon Beckerman: un social network per comprare e vendere.
D’altronde, oggi nelle aziende l’investimento in innovazione si fa anche scommettendo sulle start up ed eventualmente poi acquistandole, come ha spiegato Andrea Ruzzi, managing director, European Fashion Luxury Lead di Accenture. La società di consulenza, fra le altre cose, ha chiuso un contest fra 2.500 startup sull’innovazione in tema di sostenibilità finanziato da H&M foundation, in cui uno dei vincitori è italiano, la Orange Fiber, che produce filati dagli agrumi.

di Andrea Secchi, ItaliaOggi