Addio al mito del “posto in banca”: così il bancario cambia mestiere

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L’inchiesta/2. Fino a pochi anni fa era considerato sicuro e ben remunerato. Ma è un film del passato. In Italia, entro il 2020 il numero degli addetti si ridurrà di oltre 20mila unità (su 300mila complessivi). Le nuove professionalità di quelli che restano

EURO:SCIOPERO BANCHEIl mito del posto in banca. Noioso, sicuro, ben remunerato. Valeva fino ad una quindicina di anni fa, ora sembra un film in bianco e nero: oggi lavorare in una banca non è più tanto ben pagato, la noia è un ricordo del passato, anche per le pressioni alla vendita di prodotti magari in conflitto di interesse, e la sicurezza sta svanendo, nemmeno troppo lentamente. Le ultime due settimane sono state costellate da annunci internazionali di potenziali tagli a botte di migliaia di posti (Commerzbank, Ing, Deutsche), in Italia da qui al 2020 i posti che verranno meno sono tra 20 e 25.000 (su 300 mila complessivi). I bancari mantengono ancora una peculiarità, rispetto per esempio all’industria: gli esodi sono stati tutti volontari, con il ricorso ai prepensionamenti e ad altre misure di flessibilità interna. Niente licenziamenti, niente cassa integrazione.
Ma durerà? “Le banche sono un fattore determinante per l’economia delle famiglie e delle imprese del nostro Paese – sottolinea Eliano Omar Lodesani, Chief Operating Officer del Gruppo Intesa Sanpaolo e presidente del Comitato Affari Sindacali e del Lavoro di Abi, quindi il negoziatore per le banche del contratto di categoria – finora attraverso il Fondo di solidarietà abbiamo gestito senza aiuti 60 mila esodi in dieci anni. Tutto su base volontaria e vogliamo continuare così. Ma a questo punto è necessario trovare nuove risorse per continuare a garantire la sostenibilità per i lavoratori delle inevitabili ristrutturazioni. Speriamo che
il governo ci ascolti e che si trovino le possibili soluzioni nell’interesse dei lavoratori”.
Il tempo stringe, ne sono consapevoli i sindacati. “Anche se il contratto scade nel 2018, già l’anno prossimo dobbiamo metterci intorno ad un tavolo, pensando ad un modello di banca del futuro”, dice Massimo Masi, segretario generale della Uilca. Ancora prima bisognerà intervenire per sostenere le uscite. “La nostra proposta l’abbiamo avanzata al Forum della Fisac – spiega il segretario generale Agostino Megale – nella legge di Stabilità servono due righe in cui si dica che nei settori come i bancari e gli assicurativi, che hanno il Fondo di sostegno al reddito e all’occupazione, il governo prevede (per quelle realtà che le parti indicano più in difficoltà) un intervento con risorse pubbliche, sia sugli esodi sia sulle parti della solidarietà”.
C’è una certa disponibilità nel governo; è possibile che il ricorso ai fondi pubblici sia intorno a 100-150 milioni (il costo medio annuo di un prepensionamento va dai 50 ai 65 mila euro). Il punto è proprio l’implosione del modello di banca, così come lo conosciamo. Nei prossimi dieci anni le proiezioni più aggressive prevedono il dimezzamento in Italia del numero delle filiali e un forte snellimento dei dipendenti, superati entrambi dalla tecnologia sempre più pervasiva, dalla disintermediazione bancaria e dalla migrazione di interi settori di business verso altri operatori. Alla crisi strutturale del sistema bancocentrico si è poi aggiunta la nota contingente (ma destinata a durare) dei tassi bassi d’interesse, che ha tolto margini (e dunque linfa vitale) alle banche: insieme alla zavorra dei crediti in sofferenza, nei primi sei mesi del 2016 gli undici gruppi bancari leader del paese hanno quasi dimezzato l’utile netto (-46%). Abbastanza per parlare di tempesta perfetta.
“Non ci sono alternative: bisognerà ridursi e trasformarsi – dice Andrea Airoldi, senior partner della società di consulenza Roland Berger – da qui a dieci anni mi aspetto che le filiali siano meno della metà e anche molto del personale in rete e al centro adibito all’operatività sarà superfluo, sostituito da processi digitalizzati e da clienti sempre più indipendenti. Sta per partire una rivoluzione del lavoro in banca come quella nell’industria italiana degli anni ’70-80. In questa fase le banche fortemente concentrate a ‘difendersi’, ma questo non deve precludere di puntare allo sviluppo commerciale, ripensando profondamente la gestione della clientela corporate, private e affluent, arricchendosi di nuove competenze industriali e di interpretazione dei dati del cliente; bisogna eccellere nell’execution, riducendo drasticamente il peso dei back office e rafforzando invece le funzioni di controllo e di compliance”. Insomma meno addetti (e potrebbero essere migliaia) alle operazioni che ormai si fanno online, e più consulenti finanziari, professionisti dedicati alle relazioni commerciali, venditori a 360 gradi (non solo di prodotti di risparmio). Un passaggio a volte non indolore. “Sono entrato come cassiere neolaureato – spiega un bancario, dipendente di un istituto di medie dimensioni, che vuole restare anonomo – ora faccio il consulente. Da un certo punto di vista ho fatto carriera, ma ora ci sono molte più pressioni per vendere e spesso con i colleghi ci sentiamo presi tra due fuochi, tra il direttore di filiale e il cliente. Certo, i soldi non cadono dall’albero ma poi se va storta qualcosa la colpa è nostra. Siamo diventati lavoratori come tanti altri, pieni di preoccupazioni e con tanta incertezza sul posto di lavoro”.
Di sicuro, serve un cambio culturale e di mentalità profondo. Intesa ad esempio nel piano al 2017 non ha fatto ricorso ad esuberi ma ha coinvolto 4.500 dipendenti in processi di riqualificazione e riconversione professionale (da attività a basso valore aggiunto a funzioni commerciali e di maggior rilevanza), aumento della flessibilità sul posto di lavoro (dall’orario al lavoro remoto al part time) e grossi investimenti nella formazione (oltre un miliardo di euro). Non a caso, la banca guidata da Carlo Messina ha premuto al massimo l’acceleratore sul segmento del risparmio gestito, ma anche su quello delle polizze (vita e danni) e sulla consulenza immobi-liare, con Intesa Casa. A Unicredit (5.640 esuberi al 2018, nel vecchio piano) hanno messo a punto il “Subito banca store”, attraverso cui si possono comprare tablet e biciclette: il prodotto acquistato arriva a casa, lo shopping avviene allo sportello (oppure online) e volendo c’è anche il finanziamento. Ma per la banca guidata da Jean Pierre Mustier ormai tutto è rimandato al nuovo piano industriale, che verrà presentato il 13 dicembre.
Anche a Ubi hanno messo a punto strategie per gestire il passaggio alla banca unica. Il piano prevede la chiusura di 280 sportelli e l’esodo (al netto di 1.100 inserimenti) di 1.650 persone. Le linee guida puntano sulla consulenza, la multicanalità, i nuovi settori di business (compresi salute e previdenza complementare) oltre a mezzo milione di giornate di formazione (che riguarderanno anche i manager). Controcorrente il Credem, che ha fatto assunzioni nette per 180 persone (il 3% dell’organico) solo nel primo semestre dell’anno (post Fornero, in media ci sono 50-60 esodi volontari all’anno, su base individuale). “Noi assumiamo anche cassieri e impiegati allo sportello, perché conoscere l’attività operativa è importante per crescere – spiega Francesco Reggiani, direttore del personale di Credem – ma la cassa ‘pura’ è molto ridotta, l’80% delle transazioni classiche va su Internet. I cassieri curano le relazioni con la clientela, non a caso abbiamo creato la figura del cassiere commerciale, che aiuta anche il cliente ad andare sull’online. E poi crediamo molto nella qualificazione professionale: ogni anno una persona su 4 cambia ruolo e un direttore su cinque ha meno di 33 anni”.
Tentativi di mettere a punto un modello nuovo di banca, difficile da immaginare per gli stessi istituti di credito. Tutti parlano della necessità di specializzarsi, di cavalcare la multicanalità senza subirla, di valorizzare l’asset centrale, che resta la relazione con il cliente. Ma poi è complesso tradurre la teoria in pratica. “Bisogna uscire dal perimetro tradizionale delle banche – dice Lando Sileoni, segretario generale della Fabi – riprendersi funzioni, fare consulenza fiscale, previdenziale, conquistare nuove attività. Come del resto succede nel modello americano”. Magari segmentando il cliente per competenza finanziaria: “Occorre innovare e valorizzare al massimo la rete distributiva e la relazione con il cliente, il nostro valore più grande – continua Lodesani – Questo è un business di persone, il prodotto si copia in poco tempo. Il mondo bancario certo va verso un cambiamento radicale, anche se non so dire in quanto tempo accadrà. Una ricetta credo sia segmentare il cliente per competenza finanziaria, puntando su business di prossimità e facendo leva al massimo sul vantaggio di essere il più grande retailer del paese. Ogni banca poi applicherà la sua ricetta”.
Il punto chiave è il cambiamento di mentalità. Un salto non semplice, anche perché l’età media dei bancari è alta, 48 anni. Il caso forse più emblematico è quello degli Npl. Zavorra per le banche – che infatti stanno facendo la corsa a venderli – e occasione per la creazione di migliaia di posti di lavoro, secondo le previsioni delle società che per mestiere fanno gli “special servicer”, cioè quelle che si occupano di gestire gli Npl ceduti. C’è dunque un’eccedenza di lavoratori nelle banche e una richiesta di figure specializzate, per gestire gli stessi crediti: domanda e offerta in questo momento s’incontrano poco, ma è un paradosso, in prospettiva, difficile da comprendere.

Repubblica