Da oggi non è più il Ceo dell’azienda svedese, ma a La Stampa racconta la sua visione del futuro delle reti e perché il 5G ci cambierà la vita (e ci farà durare più a lungo la batteria)
Dopo sette anni, Hans Vestberg non è più il Ceo di Ericsson. Lo ha comunicato oggi il presidente del Consiglio di Amministrazione dell’azienda svedese Leif Johansson: «Nella situazione attuale mentre la compagnia accelera la realizzazione della sua strategia, il Consiglio ha deciso che è il momento giusto perché un nuovo leader guidi la prossima fase dello sviluppo di Ericsson». Hanno contato i risultati dell’ultimo trimestre fiscale, diffusi la settimana scorsa: utile netto in calo del 26% a 1,6 miliardi di corone svedesi (circa 168,96 milioni di euro), con fatturato che scende del 10,9% a 54,1 miliardi di corone svedesi (5,71 miliardi di euro) contro i 60,7 miliardi di corone (6,41 miliardi di euro) dello scorso anno.
IL CASO – Il ceo di Ericsson si dimette
Il cfo Jan Frykhammar è stato nominato direttore generale ad interim in attesa del nuovo Ceo, ma su Vestberg le nuvole si addensavano da tempo: ad aprile le critiche al suo operato erano costate al titolo il 15% del valore in Borsa in un solo giorno. Così Investor AB e Industrivaerden, i principali soci del gruppo, hanno confermato di aver promosso la decisione di licenziare Vestberg e un portavoce ha fatto sapere che la decisione del consiglio è stata unanime; seguiranno tagli e ristrutturazioni per contenere i costi. Così quella che pubblichiamo è l’ultima intervista dell’ex Ceo a un giornale italiano. Lo abbiamo incontrato qualche giorno fa a Roma, dove era attento e velocissimo nelle risposte; dell’azienda ha parlato poco, ma ha detto molto del futuro della tecnologia e delle sue sfide.
Lei è nel board della Fondazione delle Nazioni Unite, che hanno da poco dichiarato l’accesso a Internet diritto dell’umanità. Cosa vuol dire?
«È un traguardo cui sono fiero di aver contribuito in questi anni. Quello che sta succedendo e che abbiamo sottovalutato è che ci sono voluti 25 anni per arrivare a un miliardo di persone e raddoppieremo questo numero in 5 anni, oltre 5 miliardi persone avranno accesso a internet nel 2020 grazie alla banda larga mobile. Questo cambierà radicalmente il mondo come lo conosciamo, ridisegnerà al mappa dei Paesi in via di sviluppo, le barriere cadranno, tutti avranno le stesse opportunità di informarsi e partecipare. Ci vorrà del tempo, ma è un passaggio fondamentale: un Paese che non abbia un piano per il digitale rimarrà inevitabilmente indietro. Non ci sarà differenza tra la copertura 4G a Roma e in Nigeria, il prezzo necessario per la connessione crollerà perché noi vendiamo le stesse apparecchiature a Roma e in Africa».
Cosa cambierà?
«L’impatto sarà a livello personale, delle aziende e dei servizi. La gente ha già cambiato le abitudini quotidiane, possiamo usare Uber e AirBnb, ci saranno altre novità che scardineranno strutture e abitudini consolidate. L’industria sta già cominciando a cambiare, ad esempio la musica che è diventata tutta con la banda larga e il cloud. Banche e trasporti arriveranno a breve. Il terzo impatto sarà sulla società: i governi devono avere una infrastruttura migliore e più efficiente, devono avere un’idea più chiara di come usare il digitale. Anzi, stupisce che non lo abbiano ancora fatto: potrebbero ripensare i servizi sanitari, l’amministrazione, la scuola, con l’obiettivo di rendere per tutti l’accesso ai servizio più semplice e più trasparente».
Quanto ci vorrà?
«Siamo appena all’inizio, non riusciamo a capire che questo cambiamento sarà molto più veloce degli altri cambiamenti. Se pensiamo all’Africa 70 milioni di persone accedono a internet oggi, ma in 5 anni saranno 700 milioni: potranno creare un nuovo Airbnb, un nuovo Uber, ecc. Come occidentali per noi è un mutamento radicale di prospettiva: non abbiamo nessun vantaggio acquisito, siamo entrambi all’inizio di un cammino, e siccome questa economia sarà digitale, non dipenderà da strade e acquedotti Che certamente servono, sia chiaro, ma la partita si giocherà altrove. Per questo ho lavorato con le Nazioni Unite e ho insistito perché tutti Paesi membri abbiano un piano di digitalizzazione».
Ci è riuscito?
«No, ma abbiamo fatto passi avanti».
Qual è la responsabilità delle aziende hi tech nel disegnare il futuro della società?
«Dobbiamo provare i benefici della tecnologia, ma anche saperne cogliere le sfide e immaginarne l’impatto sulla situazione attuale, senza nasconderci i rischi che esistono. In questi anni ho imparato che la rivoluzione digitale arriverà veloce, ed è bene che come aziende noi siamo presenti dove si discutere del futuro del mondo e ci assumiamo le nostre responsabilità. Io stesso lavoro con governi di tutto il mondo per spiegare come sia importante avere banda larga e una strategia digitale complessiva, dal traffico alla salute dall’economia all’educazione».
Quali sfide comporta?
«È una questione complessa, di cui mi preme sottolineare alcuni aspetti. Intanto, la resilienza dei dati: quando tutto il sistema è digitalizzato e la dichiarazione dei redditi digitale scompare, tu non esisti più; quindi è fondamentale sapere come i dati verranno conservati. La carta si può ritrovare, ma il digitale è per definizione volatile. Poi c’è la sicurezza: i ladri oggi non vanno nelle banche ma su internet, bisogna affrontarli con sistemi sicuri ma anche educando i cittadini a riconoscere i pericoli del crimine informatico».
E la privacy?
«All’inizio internet funzionava così: tu dai via tutti i dati, e se va bene potrai averne alcuni indietro. Ma fra venti o trent’anni il modello sarà il contrario: i dati saranno nostri e noi potremmo decidere quali fornire, a chi, per quanto tempo e per quale scopo. Se voglio iscrivermi a un servizio di musica online, scelgo solo di condividere le informazioni necessarie perché io ne abbia i vantaggi che mi aspetto, se decido di dare i miei dati al Comune di Roma perché possa aiutarmi a muovermi in questo traffico orribile, lo farò, ma magari soltanto per un mese. Se poi i miei dati vengono usati per ricerche di mercato, allora deve essere anche possibile venderli, guadagnarci in denaro o servizi. Non regaliamoli: perché dovrei essere su Facebook e dire a tutti cosa faccio?».
Non c’è?
«No. Ma i miei figli sì. E spero che la loro generazione cambierà tutto, che riesca a passare dall’opt out, cioè da un modello che prevede solo di uscire dai servizi e app, a un modello in cui il criterio è l’opt in: si decide se e quando entrare in un servizio e quali dati condividere. Non abbiamo idea di quanto valgano in realtà le nostre informazioni personali perché siamo abituati a darle via gratis, dobbiamo prenderne coscienza».
Ma i suoi figli sanno che c’era Internet prima di Facebook? Che ancora oggi, per fortuna, il web è molto più ampio di un network e delle app? E soprattutto, crede che possano saperlo gli abitanti di quei Paesi dove arriva Internet.org portato da Zuckerberg?
«Anche Ericsson è impegnata nel progetto Internet.org. Nel 2021 ci saranno 7,8 miliardi di persone e 1,7 miliardi non saranno connesse a internet. Eppure, di queste persone 1,4 miliardi avranno copertura cellulare. Non saranno online per tre motivi fondamentali: il prezzo degli apparecchi, le infrastrutture oltre alla comunicazione, la mancanza di contenuti. Far scendere di dieci dollari il costo di uno smartphone vuol dire dare a milioni di persone la possibilità comprarlo. Ma poi dovrà poterlo ricaricare, e servirà la corrente: è questo che intendo quando parlo di infrastrutture. Infine dovrà trovarci contenuti e servizi che lo interessano: nella sua lingua, relativi al suo territorio. Ecco il progetto di Internet.org, e per noi è un progetto condivisibile. Non si tratta più di Facebook, ma di una sfida assai più grande, quella di non lasciare indietro nessuno».
Ma investire sulle linee fisse, sulla fibra ottica ha ancora senso?
«Il traffico dati salirà di 12 volte nei prossimi 5 anni, c’è bisogno di fibra ovviamente, ma la domanda è se la fibra deve arrivare fino a casa. In alcuni Paesi questo succede, ma è un mercato fermo. 2 miliardi di abitazioni ma solo 200 milioni hanno la fibra, ma la maggior parte degli altri non può averla, avranno semmai connessioni senza fili. La fibra sarà molto importante anche se non fino all’ultimo miglio, immaginiamo ad esempio in India: ha senso portare la fibra fino alla stazioni e poi proseguire in wireless, magari col 5G».
Perché parliamo del 5G con tanto anticipo?
«2G, 3G e 4G erano stati progettati per i consumatori, ogni volta erano un passo avanti per i dati e la voce, ma il 5G è completamente diverso. La velocità arriva a 25, 26 GB/sec ma non è tutto qui. Possiamo ad esempio immaginare sensori che si attivano automaticamente, così la vita della batteria arriva a 10 anni, il network capisce cosa succede e si attiva automaticamente. Nel settore automobilistico, con il tempo di latenza ridotto da 100 a 1 o 2 Ms, sarà possibile inviare e ricevere informazioni in tempo quasi reale. Un altro esempio: la chirurgia da remoto, in realtà virtuale, con i google glass e altro: non serve solo una latenza bassa, ma anche un’enorme quantità di dati, perché il video è dal vivo e in 4K. Ma potrei fare centinaia di esempi, ognuno usa una o più delle caratteristiche della rete 5G. Dobbiamo immaginare il futuro, dobbiamo ripensare tutte le reti e definire gli standard che cambieranno tutto il mondo».
Durerà di più anche la batteria dei normali smartphone?
«Certo. Il 4G invia segnali per tutto il tempo, il 5G non sarà così, le batterie potranno durare settimane».
Ericsson è in Italia da decenni…
«In Italia abbiamo circa 4000 dipendenti, era un mercato molto importante anche prima che diventassi Ceo dell’azienda. In Italia si sono fatti grandi passi avanti nelle innovazioni, sia per la compagnia sia per i modelli di business, penso al boom delle Sim prepagate, che qui sono esplose prima che altrove».
Cosa c’è dietro l’angolo?
«Molte cose che ora non immaginiamo nemmeno . Una cosa però è chiara: la tecnologia e lo sviluppo delle reti saranno cruciali, senza non si può andare avanti. Per quanto riguarda Ericsson, continueremo a investire molto anche nello streaming tv. Produciamo tecnologia per le emittenti televisive e serviamo 550 canali in Europa, con 1200 persone che lavorano soltanto per la Bbc. Partiamo dei film e aggiungiamo i sottotitoli, li adattiamo ai network, li trasmettiamo».