La Penisola è sotto la media Ocse in quasi tutte le voce prese in esame, recipe spicca solo l’aumento delle parlamentari. Troppo poche, ed invece, le quote rosa a livelli dirigenziali. Scarse tutele alla maternità e congedo paternità sconosciuto. L’impegno del ministro Madia: “Il governo sta cambiando rotta”
L’Italia non è un paese per donne. A meno che non decidano di fare le casalinghe a tempo pieno. I dati dell’Istat e dell’Inail che rivelano un aumento della partecipazione al mercato del lavoro (tre milioni in più rispetto a 35 anni fa) mettono anche in evidenza un dato incontrovertibile: una su due non lavora. In Sicilia, addirittura, la partecipazione al lavoro scende al 27%. Le colpe sono diffuse, certo, ma le responsabilità maggiori sono da rintracciare in un sistema Paese che ha sempre cercato di escludere le quote rose. Se da un lato si preferisce l’angelo del focolare alla lavoratrice, dall’altro in Italia le donne raramente vengono messe in condizioni di competere con gli uomimi. I dati dell’Oecd (Osce) rielaborati dall’Economist mostrano come l’Italia sia uno dei peggiori paesi per essere una donna lavoratrice. Per arrivare a questo conclusione sono stati considerato diversi parametri, dall’accesso all’educazione superiore alla partecipazione alla forza lavoro, dagli stipendi alla maternità: il giudizio complessivo lascia poco spazio all’interpretazione.
La realtà è che in Italia le donne sono spesso costrette a scegliere tra famiglia e carriera. E nonostante la promesse del governo, la strada resta in salita. Di recente ha preso posizione anche il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, madre di due figli, che ha detto: “Dobbiamo restituire alle donne la semplicità, anche attraverso meno burocrazia. Dobbiamo restituire tempo attraverso la semplificazione, significa restituire alle madri il tempo di stare con i figli. Dobbiamo andare avanti e dare alle donne la possibilità di fare figli anche se non ci sono i nonni. Su questo il governo ha l’ossessione di andare avanti”.
Il percorso, però, sarà lungo e complesso. Se sul fronte salariale la distanza tra uomini e donne si sta progressivamente accorciando, il problema vero resta la partecipazione al mercato del lavoro: gli ostacoli burocratici, il ridotto accesso all’istruzione superiore e le deboli tutele sul fronte di maternità e assistenza ai figli collocano l’Italia in fondo alla classifica dell’Ocse. Al livello di Unione europea anche la Grecia fa meglio, mentre non stupisce che ai vertici ci siano sempre i paesi nordici.La situazione migliora quando si analizza la presenza della donne all’interno dei consigli di amministrazione, anche perché una legge impone che – a partire dal 2015 – un terzo dei membri sia “rosa”. Il problema resta, piuttosto, a livello manageriale: le donne vengono promosse meno e con più difficoltà degli uomini. E raramente occupano posizione di rilievo all’interno della struttura aziendale. D’altra parte il minor accesso alla formazioni superiore e le maggiori responsabilità sul fronte della cura dei figli (legate soprattutto alla deresponsabilizzazione degli uomini, a differenza di quanto avviene nei paesi nordici) si trasformano in un handicap.
In Italia il congedo obbligatorio di paternità è stato appena raddoppiato (da uno a due giorni), ma non abbastanza: la Penisola non compare neppure nella gradutoria dell’Ocse. L’Italia è però in buona compagnia, con tante economie avanzate. Eppure sono molti gli studi a spiegare come sia utile il ruolo degli uomini: quando prendono il congedo le donne tendono a tornare più facilmente – e serenamente – sul mercato del lavoro, l’occupazione femminile quindi sale e il salary gap si riduce. L’Italia supera la media Ocse, invece, come numero di parlamentari donne. Un segnale che mostra una certa inversione di tendenza, ma che rischia di restare una primula rossa, se sul fronte del lavoro non arriveranno correttivi fondamentali e non più rinviabili all’alba del terzo millennio.
Di Giuliano Balestrieri, La Repubblica