Archiviate le accuse al senatore. Ma nell’inchiesta emergono ombre sulle sue frequentazioni mafiose. Troppo datate però
Tanti indizi, sufficienti forse per un processo. Ma i reati ipotizzati ormai sono stati cancellati dal tempo: episodi che arrivano fino a metà anni Novanta, quindi prescritti. Sono queste le valutazioni che hanno convinto la procura a domandare di archiviare le accuse contro Renato Schifani, presidente dell’Ncd ed ex presidente del Senato. Una richiesta accolta dal giudice delle indagini preliminari, che due settimane fa ha chiuso la lunga inchiesta in cui era contestato il concorso esterno in associazione mafiosa. «Erano accuse che non reggevano», ha commentato il parlamentare: «Ho pagato un grande prezzo, ricompensato tuttavia dal trionfo della verità».
L’indagine dei pm Nino Di Matteo e Paolo Guido è andata a ricostruire i lati oscuri dell’altra carriera di Schifani, che prima dell’esordio in politica del 1996, per oltre trent’anni è stato avvocato a Palermo. Come civilista sin da giovane si è occupato anche delle cause di figure di primo piano di Cosa nostra: nel 1983 Giovanni Bontade, fratello del padrino palermitano sconfitto dai corleonesi, si affidò a lui per i procedimenti di sequestro del suo ricco patrimonio immobiliare. Poi come esperto di urbanistica ha seguito pratiche professionali che hanno avuto importanti risvolti giudiziari. Il pentito Francesco Campanella – l’enfant prodige dell’Udeur di Villabate che aveva avuto come testimoni di nozze Salvatore Cuffaro e Clemente Mastella, e che fornì a Bernardo Provenzano la falsa carta di identità per farsi ricoverare a Marsiglia – ha ricostruito ai pm uno scenario nel quale l’avvocato Schifani avrebbe favorito un clan pilotando il piano regolatore della cittadina alle porte di Palermo. Campanella spiega che Schifani aveva ricevuto l’incarico professionale dal Comune di Villabate a seguito dell’interessamento di Nino Mandalà, uomo di spicco della locale famiglia mafiosa e all’epoca coordinatore locale di Forza Italia. Stando alle accuse, Schifani avrebbe prestato la propria opera per orientare la pianificazione urbanistica in modo da favorire gli interessi criminali della famiglia Mandalà, in particolare rendendo edificabili le aree di loro proprietà e interesse. «Si tratta di un grave e serio quadro accusatorio che, se confermato, configurerebbe un’ipotesi quasi scolastica di concorso esterno in associazione mafiosa», scrivevano i magistrati nella prima richiesta di archiviazione, respinta dal gip nel 2010. Per Campanella l’attività dell’avvocato sarebbe andata ben oltre i normali confini di un mandato di assistenza legale perché Schifani avrebbe collaborato anche alla predisposizione di varianti chiave per orientare il piano regolatore «secondo gli interessi mafiosi». Le parole del pentito però sono state solo parzialmente riscontrate dagli investigatori: non hanno trovato la prova che Schifani fosse consapevole e compartecipe dei disegni politico-mafiosi per il piano regolatore. E Mandalà davanti ai pm si è avvalso della facoltà di non rispondere.
Il capitolo più inquietante finito nel procedimento penale riguarda la gestione di opere pubbliche per centinaia di miliardi di lire, risalenti però a 24 anni fa. A ricostruirla sono stati due collaboratori di giustizia: Salvatore Lanzalaco e Pietro La Chiusa. Il primo è un ingegnere che progettava i lavori e il secondo un imprenditore che prendeva parte alle gare, e gran parte delle volte le vinceva grazie anche alle amicizie mafiose. Entrambi i pentiti sono stati protagonisti dell’imponente metanizzazione di Palermo fra gli anni Ottanta e Novanta: un’operazione caratterizzata da gravi illeciti, che hanno fatto finire in carcere decine di imprenditori. Nelle loro conclusioni, i pm fanno notare che tutte le fasi dei lavori che interessarono il centro e la periferia di Palermo, furono pesantemente condizionate dagli interessi di Cosa nostra e dalla corruzione, sia nella fase dell’aggiudicazione degli appalti che in quella dell’esecuzione. Lanzalaco e La Chiusa hanno messo a verbale il «ruolo cruciale» svolto dall’avvocato Schifani, che all’epoca era il legale dell’ente appaltante. «In primo luogo nel condizionamento della gara per favorire l’aggiudicazione all’associazione temporanea di impresa prescelta, e nelle fasi successive nell’individuazione delle singole ditte che, secondo le indicazioni delle famiglie mafiose avrebbero dovuto eseguire i lavori in sub appalto o essere comunque coinvolte attraverso le forniture di beni o servizi», scrivono i pm. Lanzalaco afferma che l’avvocato gli avrebbe addirittura «fornito appunti manoscritti, alcuni sarebbero stati scritti dallo stesso Schifani, contenenti l’elenco delle ditte a cui assegnare il sub appalto secondo le indicazioni ricevute dalle famiglie mafiose». Ma la prova dell’esistenza di questo elenco non è stata trovata.
Il pentito si spinge oltre: racconta che lui, Schifani e La Chiusa, sarebbero andati a Parma per perfezionare gli accordi con gli imprenditori del Consorzio Emiliano Romagnolo, capogruppo dell’associazione temporanea d’impresa che si era aggiudicata l’appalto. Anche in questo caso non ci sono sufficienti riscontri alle dichiarazioni, anche se in una occasione risulta la presenza di Schifani sul volo Palermo-Bologna. Per i pm queste rivelazioni fanno emergere «un quadro indiziario che, sebbene in alcuni punti non perfettamente collimante con le risultanze investigative dell’epoca, è però certamente indicativo del protagonismo di Schifani in una delle vicende più emblematiche della plurima convergenza di interessi politico-affaristico-mafiosi nella gestione e nel controllo della spesa pubblica nell’intera area metropolitana di Palermo».
La così grande distanza dalla vicenda non rende giustizia. Ed i magistrati sottolineano che «ogni ulteriore possibile approfondimento, certamente oggi più difficoltoso, se non con ogni probabilità impossibile in ragione del lungo tempo trascorso dalle dichiarazioni dei collaboratori, si palesa ininfluente al fine dell’eventuale esercizio dell’azione penale, atteso che tutti i fatti di reato ipotizzabili a carico di Schifani, compreso il concorso esterno in associazione mafiosa, risulterebbero oggi estinti per intervenuta prescrizione».
Agli atti dell’inchiesta sull’ex presidente del Senato entrano anche le conversazioni tra Totò Riina e il suo compagno di passeggiate in carcere Alberto Lo Russo: Riina lo indica come «il senatore che abbiamo». Già un’altra volta il capo di Cosa nostra aveva accennato al parlamentare, definendolo «una mente» durante un colloquio con i suoi familiari. Per i pubblici ministeri entrambe le affermazioni registrate «appaiono ulteriormente indicative della (ritenuta) affidabilità e vicinanza di Schifani all’organizzazione mafiosa, e ciò in ragione sia del chiaro tono confidenziale usato dal detenuto (Riina, ndr) nel riferirsi al “senatore”, sia del contesto nel quale Riina citava Schifani». Nonostante le frasi del padrino, i magistrati spiegano che le conversazioni in carcere «non lasciano emergere specifici ruoli o contributi forniti da Schifani a Cosa nostra», necessari per configurare il concorso esterno alla mafia.
Un’altra tessera del mosaico la aggiunge l’imprenditore Giovanni Costa, condannato per riciclaggio, il quale ha chiesto e ottenuto dai pm di essere sentito su Schifani, che in passato era stato il suo legale di fiducia. Costa ha detto di aver «appreso che Schifani aveva rapporti con i fratelli Graviano di Brancaccio, e con esponenti mafiosi di Belmonte Mezzagno e Villabate». Ma i pm non gli credono perché l’imprenditore non ha mai ammesso le proprie responsabilità. E proprio sul rapporto con i Graviano è stato interrogato pure il pentito Fabio Tranchina, l’autista fidato del boss Giuseppe Graviano nel periodo delle stragi. Alla luce di queste deposizioni, per i pm «non emerge alcun collegamento di matrice mafiosa tra Schifani ed il territorio di Brancaccio»: nessuno spiega però l’origine del rapporto con i Graviano, né offre «precisa natura e causale»
DI LIRIO ABBATE L’Espresso