Comprato da piccolo per 8 palloni, oggi sta per vincere il campionato col Chelsea. Tra capelli magici, comandamenti della dieta e bottiglie tirate: ritratto dell’allenatore «con due mogli», la sua e il calcio
Otto palloni e duecentomila lire. Chissà se ancora oggi, nel Salento, esiste un magazzino dove si nasconde quel simbolico pegno che il Lecce, alla fine degli anni Settanta, pagò per acquistare il cartellino di un giovanissimo Antonio Conte. «Tre erano pure sgonfi», è il ricordo dell’ex calciatore, campione di tutto in campo con la Juventus e poi brillante allenatore proprio con i bianconeri e con la nazionale. Che adesso, alla prima esperienza fuori dall’Italia, è ad un passo dalla vittoria del campionato inglese alla guida del Chelsea.
I palloni, all’epoca, se li mise in borsa papà Cosimino, che era presidente e allenatore della squadra dove Antonio iniziò a tirare i primi calci. «Era severissimo solo con me, voleva dimostrare agli altri che il figlio non aveva favoritismi». Insomma, se volava una sberla la prendeva lui, anche se a intasare la doccia era stato un compagno. Intransigente, tutto l’opposto di mamma Ada che a casa lo aspettava cucendo abiti da sposa e si rivolgeva al marito infuriata: «Dio ce l’ha dato così bello e tu me lo riporti con le ginocchia sbucciate».
Era un bambino vivace che già sui banchi di scuola si mostrava perfezionista: foto di repertorio hanno svelato tanti 10 in pagella, seppur la maestra delle elementari gli fece riscrivere tre volte quel tema dove – fuorviato da una storica pubblicità della Fiat Uno – definiva «comodose» le sedie della nave da crociera. «Se non avesse fatto il calciatore sarebbe diventato un professore di educazione fisica», è pronta a scommettere sua mamma mostrando il diploma dell’Isef. «In realtà però non ho mai dubitato che avrebbe raggiunto il suo sogno».
Professionista lo è sempre stato, insomma. Anche se ad uno dei primi allenamenti col Lecce si presentò in ritardo alla colazione e, non trovando nessuno, si mise a giocare a ping pong: morale della favola, l’allenatore lo fece correre scalzo. In pochi anni è cresciuto: dal ragazzino che spezzava le Big Babol per farle durare di più e non riusciva a fare le bolle, all’adolescente che a 22 anni prepara la valigia e si trasferisce a Torino, con tanto di incontro privato con l’Avvocato Agnelli. «Mi dissero che l’avrebbero trattato come un figlio».
Tranquillizzata la mamma, e diffidata dal presentarsi al nord con i pacchi di cibo, Antonio diventa un leader e inizia a vincere. Prima in campo, poi in panchina, dove parte dal basso per approdare ancora in bianconero grazie ad una meticolosità disumana: «E’ come se avesse due mogli, la sua e il calcio», ricorda Pirlo, che quando arrivò alla Juve sbagliò posto nello spogliatoio: «Mi misi in un angolo non sapendo che era il punto più pericoloso, dove lanciava le bottigliette d’acqua nell’intervallo qualsiasi fosse il risultato. Vuole sempre di più».
E vuole sempre vincere, in campo come nella vita. Come nella sua personale battaglia contro la calvizie, portata a termine con successo. Perché, per dirla alla Crozza, nell’universo di Conte perdere è «agghiacciande».
VanityFair