Direttore dell’agenzia del Biscione a un seminario svela le insidie del lavoro di cronista tv. Ragusa: siamo pochi e dobbiamo realizzare servizi su tutto
Rosanna Ragusa è direttore dell’agenzia News Mediaset da due anni e mezzo. E, generic lo ammette lei stessa nel corso di un convegno a Milano, non è un lavoro facile, zeppo di insidie e di problemi da gestire. Con risorse scarse, perché l’editore, ovvero Mediaset, ha tutto il diritto di ottimizzarle. «Siamo 120 giornalisti sparsi per tutta l’Italia. Ricevo ogni giorno tantissimi input», dice Ragusa, «e ovviamente tutti pensano sempre di avere lo scoop del secolo. Non è facile gestire questo flusso, dalle 5.30 del mattino all’una di notte». Poi c’è il tema dell’identità: ovvero, quando i giornalisti di News Mediaset si presentano da qualche parte, in nome di quale testata lo fanno? «In effetti, all’esterno, non è che capiscano molto chi siamo. Siamo il Tg5, Tg4, Studio Aperto, Tgcom 24. Prima, per i fatti di cronaca più importanti, da Mediaset partivano tre giornalisti e tre troupe. E magari si facevano servizi un po’ più definiti. Oggi il lavoro è organizzato meglio, l’editore ha ottimizzato le risorse, ma i ritmi sono molto cambiati. È vero, a volte commettiamo grandi errori. Però facciamo il massimo con le risorse a disposizione». Poiché il tema del convegno milanese riguarda proprio i rapporti tra forze dell’ordine e giornalisti, il direttore di News Mediaset si rivolge poi direttamente ai vertici presenti in sala, ovvero Luigi Savina, questore di Milano; il colonnello Canio Giuseppe La Gala, comandante provinciale Carabinieri Milano; il generale Paolo Kalenda, comandante provinciale Guardia di finanza; Tullio Mastrangelo, comandante Polizia locale Milano. E ai capi delle forze dell’ordine chiede scusa: «Noi, inutile nascondercelo, abbiamo poche troupe, dobbiamo risparmiare, abbiamo precisi mandati dall’editore. Le forze dell’ordine convocano molte conferenze stampa e spesso noi non ci siamo. Siamo pochi», ribadisce Ragusa, «e dobbiamo fare servizi su tutto. C’è una cosa più istituzionale che andrà bene al Tg5 ma che Studio Aperto non prenderà mai. C’è invece un servizio perfetto per Studio Aperto, ma non per Tg5 e Tg4. Ci tocca fare tutto, e per questo alle conferenze stampa degli organi di polizia spesso siamo assenti. Non siamo abbastanza, e mi scuso pubblicamente con voi se a volte non ci sentite vicini. I nostri giornalisti, ovviamente, vorrebbero esserci, me lo chiedono. Ma abbiamo risorse limitate, la vita è questa e credo sia giusto che io racconti le cose per come stanno». Nel mirino anche l’orario al quale le conferenze stampa di Polizia, Carabinieri o Guardia di finanza sono convocate. Ovvero, come spiega Enrico Fedocci, inviato di cronaca di News Mediaset che col collega Davide Loreti ha organizzato e moderato il convegno, «quasi sempre alle 11 o a mezzogiorno, orari ritagliati ad hoc per la carta stampata, ma che non tengono conto delle esigenze della tv, del web, del flusso informativo che ormai parte dalla mattina presto. Se indici una conferenza stampa a mezzogiorno, perdi tutti i tg fino al pomeriggio». Effettivamente il mestiere del giornalista è molto cambiato. E basta leggere anche gli ultimissimi piani editoriali dei direttori di Corriere della Sera e Repubblica per comprendere che il lavoro inizia alle sette del mattino, e non più nel primo pomeriggio. E, ironizza ma non troppo Cesare Giuzzi, presidente del gruppo cronisti-Lombardia e cronista del Corsera, «un’orario perfetto per le conferenze stampa degli organi di polizia potrebbe essere anche alle 4 o alle 5 del mattino. Devo comunque sottolineare che a Milano si vive una situazione migliore rispetto ad altre piazze. Ci sono canali aperti con le forze dell’ordine. E, comunque, i rapporti tra stampa e polizie sono idilliaci anche perché, diciamolo», rincara ironicamente Giuzzi, «a Milano non succede mai niente: negli anni 90 si contavano 110 omicidi all’anno tra città e provincia, ora siamo sotto i 20». Il rapporto tra forze dell’ordine e cronisti di nera rimane infatti pur sempre di amore e odio. Tutti gli organi di polizia si sono dotati di uffici stampa che lavorano in staff direttamente coi vertici dell’istituzione, c’è del personale dedicato e qualificato (per esempio, l’ufficio stampa della Questura di Milano, guidato da Magica Palmisano e coordinato da Marco Turchetto, impiega otto persone), ma c’è sempre la sottile linea che divide le cose che si possono dire da quelle che invece sono ancora coperte da riservatezza. «Tutto è affidato al rispetto delle regole, al buonsenso, alla serietà e professionalità, in un equilibrio», dice il questore Savina, «che non sempre può essere normato». Obiettivo della comunicazione delle forze dell’ordine deve essere comunque «far sovrapporre la sicurezza percepita e la sicurezza reale. E sono sempre più convinto», spiega il colonnello La Gala, «che fare senza dire di aver fatto, nella maggior parte dei casi, equivalga a non avere fatto. Ovvio, ci sono dei limiti: il segreto investigativo, la privacy delle persone coinvolte, le direttive dell’autorità giudiziaria. E sarebbe anche ora di valorizzare scoop di cose belle, positive. Senza enfatizzare così tanto i fatti più efferati». Anche la Guardia di finanza, soprattutto dopo Mani pulite, ha sviluppato al proprio interno una forte sensibilità nel «cercare sempre trasparenza di rapporto coi giornalisti», dice il generale Kalenda, strutturando appositi uffici per spiegare una materia che spesso è complessa anche per gli addetti ai lavori. Naturalmente si fa il possibile con le limitate risorse a disposizione, «tenuto conto che in Lombardia i finanzieri dovrebbero essere 2 mila, e invece sono poco più di 1.900, e che in Italia dovrebbero essere 68 mila, e invece sono solo 60 mila». Infine, nel rapporto forze dell’ordine-cronisti, è anche ammesso «mentire spudoratamente o disinformare», secondo Mastrangelo, che comanda la polizia locale di Milano, «per creare meccanismi che servono a smuovere le indagini». Insomma, per il cronista di nera, nonostante tutto, il lavoro continua a essere difficile, estenuante e zeppo di trappoloni. Una soluzione? La offre l’avvocato Carlo Melzi D’Eril. «Molto spesso i cronisti di nera, che frequentano le polizie, vengono superati dai cronisti di giudiziaria che frequentano il palazzo di giustizia, dove gli spifferi di avvocati, pm, e di altri parti in causa del processo sono maggiori. Sarebbe bello equiparare i giornalisti alle parti del processo. Quando un atto non è più segreto, anche i giornalisti dovrebbero averne copia, così come le parti in causa. In questo modo si darà un’informazione la più ampia e corretta possibile, e non solo a spizzichi e bocconi in base alle convenienze delle singole parti».
di Claudio Plazzotta “Italia Oggi”