(di Mauro della Porta Raffo) Allorché, dopo la cerimonia del giuramento, Franklin Delano Roosevelt mise piede per la prima volta alla Casa Bianca, al suo fianco, oltre alla moglie Eleanor, marciava un rude e smaliziato politico del Sud, il Vicepresidente eletto John Garner, a tutti noto come ‘Cactus Jack’.
Era il 4 marzo 1933.
Solo un anno prima, nessuno e tanto meno in campo democratico, avrebbe potuto pensare ad un tale epilogo della campagna presidenziale in corso.
Garner, Presidente della Camera dei Rappresentanti, infatti, era da sempre un duro avversario di Roosevelt e, fino alla Convention del partito dell’Asino, si era fortemente opposto alla candidatura del Governatore dello Stato di New York.
Poi, d’improvviso, aveva fatto convergere proprio sul rivale i molti e decisivi voti dei delegati che controllava determinandone la Nomination.
In cambio, per lui, la carica vicaria in caso di vittoria.
Leggenda vuole che, di fronte all’imprevista conclusione della Convention, un giovane giornalista, fattosi coraggio, avesse chiesto a ‘Cactus Jack’ cosa mai fosse successo.
“Giovanotto”, fu la risposta, tra una boccata di sigaro e l’altra, “io sono più vecchio di te e so da tempo che la politica è una cosa strana”.
Seduto ‘a un battito di cuore’ (e il cuore che batte e che si può fermare è quello dell’inquilino di White House) dalla Presidenza, Garner se ne stette buono buono per otto anni portando a termine con Roosevelt i suoi primi due mandati.
Quando, nel 1940, contro il dettato morale del Padre della Patria George Washington (che aveva rifiutato un terzo quadriennio alla Casa Bianca dicendo che nessuno poteva esercitare un potere così grande per più di otto anni), il secondo Roosevelt si ripropose per la terza volta, con lui, a comporre il ticket democratico, si presentava un vero campione – se mai ve ne fu uno – della sinistra di quel partito, il futuro Vicepresidente Henry Wallace.
Quattro anni con Wallace e con l’assillo di controllarne le spinte estremistiche convinsero Roosevelt che, per il suo quarto mandato, sarebbe stato meglio trovare un compagno di cordata più mansueto, un uomo di poche pretese e di seconda (se non di terza) schiera.
La scelta cadde sul poco conosciuto Senatore del Missouri Harry Truman.
Il duo vinse alla grande la tornata elettorale e Truman, dal successivo 20 gennaio 1945, si trovò ad occupare una sedia che, Roosevelt regnante, avrebbe solo dovuto riscaldare senza dare fastidio a nessuno.
Meno di tre mesi dopo, il cuore del Capo dello Stato del New Deal si fermava per sempre e il missouriano, incredibilmente, si trovava a reggere le sorti degli Stati Uniti d’America a seconda guerra mondiale in corso.
Ma chi era Harry Truman?
Nato a Lamar l’8 maggio 1884, dopo una giovinezza trascorsa nell’esercizio dei più diversi mestieri, per la prima volta si distinse nel 1916 fallendo miseramente nel tentativo di sfruttare una concessione petrolifera nel Kansas.
Partito per il fronte europeo con il grado di capitano di artiglieria (seguono i suoi reali trascorsi militari al di là di quelli in seguito sbandierati), arrivò in prima linea dieci minuti prima dell’armistizio dell’11 novembre 1918 e fece in tempo a tirare una sola salva di cannone.
Reduce, si dedicò al commercio e nel 1922 fallì nuovamente, questa volta nella veste di proprietario di un negozio di camicie e cravatte, per la bella somma di venticinquemila dollari dell’epoca.
Mai fallimento fu più fortunato!
Più vicino ai quarant’anni che ai trenta, decise di buttarsi in politica tra le fila democratiche e si legò anima e corpo al boss locale Tom Pendergast che ‘governava’ da oltre vent’anni Kansas City e il Missouri con metodi spietati e gangsteristici.
Fu Pendergast a designare Truman come giudice e come agente elettorale della Jackson County.
Dopo dodici anni di ‘onorato’ servizio nella terra natia, il futuro Presidente fu spedito, ancora una volta da Pendergast, al Senato di Washington con una maggioranza di ben quattrocentomila voti e la consegna di “tenere la bocca chiusa fino a che avesse imparato le astuzie del mestiere e di rispondere alla corrispondenza”.
Era il 1934 e lo scandalo conseguente alla sua elezione ebbe vasta eco nel Paese, tanto che l’appellativo protocollare ‘The gentleman from Missouri’ nel suo caso si trasformò in ‘The gentleman from Pendergast’.
Confermato al Senato nel 1940, sia pure a fatica, il missouriano – il cui altro carattere distintivo era l’assoluta mancanza di cultura (aveva seguito a fatica alcuni corsi serali della scuola di diritto di Kansas City), tanto che Bernard Baruch lo definì “incolto e grossolano” – una volta arrivato assolutamente per caso e come già accennato a White House, incredibilmente, si rivelò un davvero buon Presidente, dotato di una fin allora ben nascosta capacità decisionale (collocò in bella vista sulla scrivania nella Stanza Ovale una lista di legno recante la scritta ‘The buck stops here’) e di grande fiuto politico.
L’uomo che ancora il 28 gennaio del 1945, da Vicepresidente in carica, non aveva mancato di partecipare, piangente, al funerale del suo boss, in quello stesso anno ordinò il lancio delle atomiche su Hiroshima e su Nagasaki, ponendo fine al secondo conflitto mondiale nel Pacifico.
Sempre lui, nel 1947 (con la ‘dottrina’ che prese il suo nome) decise l’abbandono da parte degli Stati Uniti della tradizionale politica di non intervento nelle questioni europee, promettendo, in piena guerra fredda, che gli USA “avrebbero appoggiato i popoli liberi che stanno resistendo ai tentativi di assoggettamento da parte di minoranze armate o di pressioni esterne”.
Ancora lui, diede il via al Piano Marshall di assistenza economica all’Europa devastata dalla guerra (George Marshall era il suo Segretario di Stato).
Nel 1948, poi, pose fine drasticamente alla segregazione razziale nell’esercito e nelle scuole finanziate dal governo federale e si guadagnò, malgrado tutti i sondaggi negativi e i primi risultati della costa atlantica a lui contrari (il rivale Thomas Dewey era andato a dormire convinto di avere vinto svegliandosi sconfitto), una magnifica rielezione.
Promotore, nel 1949, della NATO, coinvolse successivamente il Paese nella guerra di Corea.
Non più del tutto nel pieno del sostegno popolare, rinunciò nel 1952 ad un possibile nuovo mandato ritirandosi, come voleva sua moglie Bess, a vita privata.
Assolutamente contrario al successore designato dai ‘suoi’ democratici Adlai Stevenson, gli diede comunque una mano nella campagna contro il repubblicano Eisenhower.
Fu l’ultima volta che il vecchio e caro ‘treno elettorale’ percorse il Paese.
La sconfitta di Stevenson sarebbe stata ben più rovinosa senza il suo tardivo intervento.
Ancora nel 1960 ebbe notevole voce nel corso della Convention che avrebbe portato alla designazione di John Kennedy a candidato degli Asinelli.
Famosa a questo riguardo la frase che, conoscendo bene i suoi polli, pronunciò con riferimento alla religione cattolica del Senatore del Massachusetts (in altri tempi, ostacolo insormontabile) e alla fama del di lui padre Joseph:
“It’s not the Pope wo worries me, it’s the pop!” e cioè “Non è il Papa che mi preoccupa, è il papà!”
Truman morirà a Kansas City il 26 dicembre 1972, ad ottantotto anni compiuti, lasciando nel lutto un’intera nazione.