
Web tax come neve al sole. Pubblicata per la prima volta in Gazzetta Ufficiale il 27 dicembre 2013, è entrata in vigore sotto una nuova veste solo nel 2020, con il primo versamento dell’imposta al 16 maggio 2021. Ma a seguito di un accordo con il governo degli Stati Uniti, l’Italia prevede di ritirare l’imposta nel 2023, anno in cui saranno efficaci le nuove regole Ocse per il fisco internazionale delle società. Da parte loro, gli Usa si sono impegnati a ritirare le minacce dei dazi sui prodotti del Made in Italy.
L’accordo. Giovedì scorso, 21 ottobre, oltre all’Italia, altri quattro paesi europei (Austria, Francia, Spagna e Regno Unito) hanno definito i termini di un accordo transitorio per il passaggio dalle attuali Digital services tax (Dst) verso la nuova soluzione Ocse che permetterà di tassare i giganti del digitale attraverso principi comuni. Solo qualche giorno prima, l’8 ottobre è stato raggiunto lo storico accordo tra 136 paesi del Quadro inclusivo dell’Ocse sulla riforma del fisco internazionale per le società fondato su due pilastri, da attuare entro il 2023. Per ora, le web tax saranno in vigore fino a quando sarà efficace il primo pilastro della riforma Ocse, ossia quello che aumenta la tassazione delle (circa) 100 società più redditizie al mondo. Tuttavia, i paesi hanno stabilito che sarà offerto un credito fiscale per rimborsare l’ammontare della tassa raccolta in eccesso se l’accordo Ocse fosse stato implementato prima.
I cinque paesi europei avrebbero preferito, si legge nel documento sull’accordo, che «l’abrogazione delle misure unilaterali fosse subordinata all’attuazione del primo pilastro, mentre gli Stati Uniti avrebbero preferito che l’abrogazione delle misure unilaterali fosse immediata a partire dall’8 ottobre 2021», data in cui è stato raggiunto l’accordo politico rispetto al primo pilastro. Tuttavia, «tutti i paesi che hanno adottato misure unilaterali prima dell’8 ottobre 2021, non sono tenuti a abrogare le proprie misure unilaterali fino all’effettiva applicazione del primo pilastro». Viene quindi stabilito un rimborso «nella misura in cui le imposte maturate» nei 5 paesi in relazione alle web tax «prima dell’effettiva applicazione del primo pilastro», eccedono l’importo dovuto ai sensi del primo pilastro nel primo anno intero di attuazione.
La web tax italiana. In totale 49 società hanno versato 233 milioni di euro nel 2021 in relazione ai servizi del 2020. Un debutto sotto le aspettative di 700 milioni. Amazon, la principale società Usa attiva in Italia, ha versato poco più di 10,4 milioni di euro, mentre Google 11,5 milioni. L’imposta è dovuta da tutte le imprese, anche non residenti, con ricavi globali di almeno 750 milioni di euro, e con almeno 5,5 milioni di euro di fatturato derivanti da determinate attività digitali in Italia.
Le regole Ocse. Il primo pilastro della riforma Ocse redistribuisce verso i paesi-mercato i diritti di tassazione delle multinazionali che praticano attività commerciali e guadagnano profitti nel proprio paese, indipendentemente dal fatto che abbiano una presenza fisica in loco. In particolare, saranno coperte le multinazionali (circa 100) con un fatturato mondiale superiore a 20 miliardi di euro e una redditività superiore al 10%. I paesi-mercato potranno tassare con l’aliquota nazionale il 25% dei profitti (esclusa una prima soglia del 10%). L’Ocse calcola che saranno spostati più di 108 miliardi di euro di profitti ogni anno verso i paesi-mercato. Il secondo pilastro, invece, stabilisce un’aliquota minima globale al 15%. Lo scopo non è quello di eliminare la concorrenza fiscale, ma di porre dei limiti alla concorrenza al ribasso sulle aliquote. Grazie a questa soglia saranno raccolti circa 130 miliardi di euro di gettito in più all’anno. Per l’Italia in arrivo 2,7 miliardi in più, secondo le stime dell’Osservatorio fiscale Ue. Ulteriori benefici potranno derivare dalla stabilizzazione del sistema fiscale internazionale e dalla maggiore certezza fiscale per i contribuenti e le amministrazioni fiscali.
I dazi. A fine marzo gli Stati Uniti avevano minacciato dazi del 25% sui prodotti del fashion Made in Italy per un ammontare di 140 milioni di dollari (120 milioni di euro), poi sospesi a giugno. In un elenco dettagliato pubblicato dall’Ufficio del rappresentante per il commercio degli Stati Uniti (Ustr) si parlava di ritorsioni su abbigliamento, borse, scarpe e accessori. Ma erano in pericolo anche profumi, montature di occhiali e lenti, caviale e acciughe.
A gennaio, l’ufficio del commercio Usa aveva sentenziato che la web tax adottata dall’Italia (e Austria, India, Spagna, Turchia e Regno Unito) era discriminatoria nei confronti dei big tech statunitensi e incompatibile con i principi della tassazione internazionale. Il governo Usa, quindi, aveva la possibilità di avviare un’azione ai sensi della sezione 301 e adottare misure di ritorsione contro i paesi discriminanti.
Matteo Rizzi, ItaliaOggi Sette