Il 67% dei medici e il 61% delle altre professioni sanitarie che hanno affrontato l’emergenza covid-19 hanno ‘fatto esperienza di stress psicologico’. Ad accompagnarli in questo difficilissimo percorso sono stati sentimenti di ostilità, frustrazione e impotenza, assieme a sintomi psicofisici quali depressione, ansia e insonnia. È quanto emerge da un’indagine effettuata dalle ricercatrici della Sissa (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) di Trieste Elisabetta Pisanu e Ester Biecher e i cui dati sono stati resi noti in un report appena pubblicato. “Eppure – sottolineano le autrici del documento – solo il 4% dei medici e il 3% delle altre professioni sanitarie ha richiesto e usufruito dei servizi di supporto piscologico approntati per dare loro supporto nell’emergenza. Un dato – aggiungono – che non può non colpire dichiarano le ricercatrici “e che ci deve far riflettere su ciò che potrà essere fatto in futuro per garantire una maggiore partecipazione e una maggiore tutela della saluta psicologica dei sanitari”. I dati sono stati raccolti attraverso un questionario online anonimo a cui hanno risposto 719 operatori, tra sanitari e operatori della salute mentale, che hanno fornito loro il servizio di consulenza psicologica. Dai risultati emersi risulta che sono stati gli infermieri a richiedere maggiormente il supporto psicologico rispetto alle altre figure (41% contro il 32% dei medici e il 15% degli operatori sanitari). Secondo quanto dichiarato da medici e infermieri, le loro maggiori preoccupazioni erano legate al timore di contrarre l’infezione o di trasmetterla ai familiari (39%), alla mancanza di dispositivi di protezione individuale (41%), al numero di pazienti da seguire (51%), alla fatica fisica legata all’utilizzo dei dispositivi di protezione (61%). Analizzando i diversi stati d’animo, un terzo circa degli operatori ha dichiarato di provare sentimenti come tristezza, impotenza, ansia, rabbia “spesso, molto spesso o sempre”. “Questa indagine ci dice che l’impatto emotivo dell’emergenza sugli operatori è stato importante. Le autorità sanitarie, va detto, hanno reagito tempestivamente, pur nelle enormi difficoltà del periodo, per aiutare questa categoria fornendo un supporto psicologico” spiegano Elisabetta Pisanu e Raffaella Rumiati, rispettivamente prima autrice e responsabile della ricerca. “Eppure qualcosa non ha funzionato se meno del 5% degli operatori ha utilizzato questi servizi; ciò vuol dire che il modello adottato per l’accesso al consulto, che prevedeva due o tre fasi distinte, era poco funzionale. Le cause possono esser molte e nel nostro report ne evidenziamo alcune. Fra quelle rilevate dall’indagine, è emersa una certa disorganizzazione e mancanza di chiarezza sui servizi resi disponibili e su come usufruirne”. Inoltre, il percorso individuale che è stato proposto può essere stato visto come meno utile rispetto a quello comunitario: “Diversi operatori hanno dichiarato che il conforto maggiore in quei giorni arrivava dal confronto con i colleghi e le colleghe che vivevano la loro stessa esperienza. Era una situazione di disagio diffusa e, per questo, con gli altri andava condivisa anche dal punto di vista della sua elaborazione”.