(di Tiziano Rapanà) Raramente sono inciampato nell’arte. Di film ne ho visti tanti, ma il vero cinema l’ho soltanto sfiorato. Idem per la letteratura e le altre forme di espressione. Con la poesia sono stato fortunato, perché ho evitato i poeti laureati, mal sopportati da Montale, accatastati nelle antologie scolastiche e mi sono abbandonato ai versi di Umberto Saba, Caproni, Ungaretti, Bellezza. Ma che bruttezza questo poetare moderno. La rima è scomparsa, svilita da presunti intellettuali di mezza tacca che ci fanno dono di stupide elucubrazioni in forma di verso. Per fortuna esiste Giulia Ananìa e la sua poesia popolare, che si esprime compiutamente nella raccolta L’amore è un accollo (Bizzarro/Red Star Press). I versi traboccano di una romanità verace, degna delle canzoni interpretate da Alvaro Amici. Nelle poesie di Ananìa, nota per la sua attività di cantautrice e provocatrice culturale, l’amore è un oggetto di disperata vitalità. I versi sanguinano tribolazione, il romanticismo non è frutto di un immaginario caro agli sceneggiatori hollywoodiani: le poesie tratteggiano piccole storie d’amore immaginato, figlio di una sera venata malinconia o di una notte di un incontro carnale che ha il profumo del fiore del disinganno. C’è anche tanta Roma: quella “nuda”, cantata da Califano, mostra il suo volto meno edificante, che stride con l’insipida immagine da ufficio turistico. Tra le pagine si scorge il bellissimo omaggio a Pasolini, lontano dalla retorica del martirio ordita dalla gauche caviar. Per una volta la solitudine, indiscussa protagonista delle poesie, si rivela nella sua spietata crudeltà: niente stupide apologie, sulla bellezza dello stare da soli. Giulia Ananìa, con questo libro, ha reso giustizia ad una cultura, schiava dai vacui intellettualismi che dominano l’odierno mercato editoriale. L’amore è un accollo è un volume che dovreste comprare e conservare con cura nella vostra libreria.