Marco Bizzarri si appresta a celebrare i primi 100 anni di Gucci in un momento che ha sconvolto i parametri di tutte le imprese. E nel quale lui, in quanto amministratore delegato, è pronto a cambiare ancora la maison. «I cicli nella moda durano mediamente cinque anni e io e Alessandro (Michele, il direttore artistico di Gucci, ndr) cerchiamo di muoverci in anticipo. Questa è l’azienda in cui sono stato più a lungo e la ragione è nelle persone con cui lavoro: so che è banale, ma sono ciò che fa la grande differenza. E poi Gucci è un brand pazzesco, proprio bello».
In una lettera che ha scritto per il centenario ai 20 mila dipendenti della società nel mondo, Bizzarri è tornato a quella che era stata la prima sfida: la prima sfilata di Michele a Milano. «Nessuno sapeva chi fosse quel rivoluzionario sorridente, e la decisione di nominarlo direttore creativo sembrava quasi a tutti — se non proprio a tutti — un azzardo. Quale fu la colonna sonora che accompagnò i modelli e le modelle quel giorno? La musica di “A Single Man”, il film che ha segnato l’evoluzione di Tom Ford da stilista a regista. La grandezza di Gucci Anni ’90 accompagnava la nascita di una nuova Gucci, molto diversa nella forma da quella di Tom Ford, ma erede di quel mondo fatto di libertà assoluta». In questo legame tra passato e futuro sta la Gucci dei prossimi cento anni.
In effetti la scelta di Michele lasciò tutti di sorpresa. Quale era stato il suo ragionamento strategico?
«Quello di avere un cambiamento di cultura. E volevo lavorare con una persona che mi piacesse, con cui condividessi dei valori; fortunatamente, Alessandro è anche un fuoriclasse. Abbiamo ragionato su quello che ci sarebbe piaciuto fare. Non abbiamo scritto una strategia di marketing ma un documento di 7/8 pagine in cui ci siamo raccontati delle emozioni, il tipo di immagine che volevamo dare, a che tipo di consumatore volevamo rivolgerci e quanta voglia avevamo di spiazzare il mercato. Su quello abbiamo incominciato a lavorare, sentendoci ogni giorno. Ancora oggi abbiamo un bellissimo rapporto e piena fiducia reciproca».
Lei scrive ai dipendenti che Gucci è nata «in un mondo che rispetto a quello di oggi può sembrare più lontano di una galassia remota ma che, allo stesso tempo, sentiamo molto vicino». Anche allora si stava uscendo da una pandemia, l’influenza spagnola. Cosa è stato il Covid per l’azienda, per la moda?
«Un problema importante e una opportunità. Solo come Gucci abbiamo 500 negozi in giro per il mondo e il nostro lavoro è andare a parlare con le persone. Le modalità digitali fanno perdere l’empatia, che è una componente essenziale del lavoro. Dall’altra parte, però, abbiamo avuto un’accelerazione tecnologica: abbiamo lanciato “3Dream”, un progetto di modellazione e prototipazione in 3D grazie al quale, anche lavorando a distanza, il team creativo può vedere lo sviluppo dei prodotti in modo molto veloce e flessibile, migliorando anche la sostenibilità perché potremo produrre solo i prototipi necessari, senza sprechi. È la Gucci del futuro. Stiamo investendo tanto».
Avete deciso di essere carbon neutral. Ma c’è il problema di cosa fare delle collezioni rimaste invendute.
«Il tema delle collezioni non vendute e del loro utilizzo è caldissimo nel mondo della moda. Per quanto ci riguarda, le rimanenze sono intorno al 2-3% dell’intera produzione, non molto se si pensa alla nostra dimensione. Un risultato che riusciamo a ottenere grazie all’uso di intelligenza artificiale che ci permette di allocare in modo corretto la produzione nei negozi. Quello che non viene venduto a prezzo pieno viene messo all’interno degli outlet o venduto ai dipendenti. E se resta ancora qualcosa, lo smontiamo, togliamo i tessuti e cerchiamo di riutilizzare tutti gli scarti possibili. Un po’ come avviene nell’alimentare».
C’è chi teme l’eccessiva dipendenza del lusso dal mercato cinese, che oggi rappresenta la metà dei consumi. E si dice che presto la competizione verrà da brand cinesi.
«Posso solo dire che la Cina ha permesso di recuperare ciò che stavamo perdendo in Italia e in Europa dove i negozi erano chiusi. Riguardo a brand cinesi, è possibile che ne nascano di importanti, è un mercato enorme e con tante intelligenze. Abbiamo visto che Exor ha comprato Shang Xia. E dovremo vedere cosa succederà quando i confini saranno riaperti: se il consumatore resterà all’interno, sarà più indirizzato a marchi nazionali».
Ha detto che dopo questo lungo lockdown ci sarà un periodo di shopping «incredibile» ma che, superata l’euforia, si dovrà fare i conti con le disponibilità economiche. Lei è anche nell’Advisory Board del Business 20 (B20), che rappresenta la comunità d’affari internazionale all’interno del G20. Come vede l’Italia?
«Non benissimo in assenza di decisioni impopolari. Non è sufficiente avere una personalità importante come Mario Draghi come primo ministro, ci vuole la possibilità di operare, cosa difficilissima in Italia».
In che modo?
«Dobbiamo lavorare sulla burocrazia, sicuramente. Sappiamo che se un dipendente o un dirigente non può prendere un impegno o mettere una firma perché poi gli viene chiesto di renderne atto, nessuno si muove più. Di riformare la Pubblica amministrazione si parla da trent’anni, speriamo che succeda. Dall’altro lato, dobbiamo ricordarci che, se Michael Porter (uno dei maggiori esponenti della teoria della strategia manageriale, ndr) diceva che la strategia competitiva era investire nel vantaggio competitivo, sarebbe il caso di farlo».
Investendo dove?
«Il vantaggio competitivo dell’Italia è il Made in Italy, in qualunque forma lo vogliamo intendere, l’alimentare, la moda, il turismo. E al Made in Italy dovrebbe essere riservata una parte importante dei fondi del Next Generation Eu destinati alla digitalizzazione e alla transizione green. Se invece pensiamo solo di voler competere con la Silicon Valley abbiamo già perso la partita».
Maria Silvia Sacchi, con la collaborazione di Maria Elena Viggiano, Corriere.it