Quante volte nella vita ci si rende conto di come possa rivelarsi sottile il confine che separa il piacere dal dolore: quando i sentimenti turbinano o le esperienze si accavallano intrecciandosi, si rischia di passare repentinamente da una condizione all’altra in un ‘fiat’. In guerra si passa da paure terribili, quando si è nel mirino del nemico, al sollievo offerto un attimo dopo da un ridotto ben protetto. O in amore, quando d’improvviso ci si trova a scoprire un tradimento. Quando passo davanti al Supplizio, penso al gioco di parole inventato da Arcangelo Dandini, che da anni è l’Imperatore Mondiale del Supplì. Qualcuno lo conosce solo per la piccola bottega aperta a Piazza della Moretta, all’angolo con Via dei Banchi Vecchi. Ma la storia di Arci – come lo chiama qualche amico – è una storia lunga, che parte dalla campagna laziale, da Roccapriora, la sua patria, per snodarsi fino ad aprire un ristorante dietro Piazza Cavour. Un bancone, la lavagna coi piatti del giorno e una sala che profuma di trattoria romanesca, guardata a vista da Stefania Sammartino, sommeliera e patronne col marito.
Dall’Arcangelo al Supplizio rinnovato: la resistenza gastronomica del quartiere Prati
Alla mattina professionisti, avvocati, dirigenti impiegati nella miriade di uffici del quartiere Prati, alla sera forestieri attirati dalla buona fama del cuoco: ebbene, come sa chi si occupa di ristorazione e gastronomia, sotto i colpi del lockdown questo mondo è sparito: lo sanno i protagonisti del fine dining messi in seria difficoltà anche dalla scomparsa degli stranieri, clienti maggiori di ristoranti di rango come il Pagliaccio (due stelle Michelin) e Pipero (una stella), che resistono al ciclone della pandemia pur avendo perso l’appuntamento più importante della giornata, quello della cena, che portava ospiti di rango sia nella tana dorata ed elegante di Anthony Genovese sia nelle sale affacciate sulla Chiesa Nuova e presidiate da Ciro Scamardella ai fornelli e Achille Sardiello a controllare la macchina tutta. Una resistenza che si gioca sui margini ridotti del pranzo e sul delivery di classe, e che vede addirittura Alex Pipero muoversi di persona per andare a servire la cena e coccolare a casa loro i clienti vip (o aspiranti). Ma i ragazzi non mollano, sicuramente incoraggiati dalla gran sala piena di luce: per i nostalgici la carbonara non manca mai, ma trovo le ultime novità più divertenti, essendo riuscito a schivare una miriade di amuse bouche sin troppo ricca, le famose ‘frocerie’ piperiane. Ecco un formidabile “risotto burro e alici rovesciato”: allineate sul fondo del piatto i pescetti allineati e coperti poggiano su un velo di burro aromatizzato e aspettano il calore del riso per liberare un possente profumo di torbato (un goccio di whisky!). Altrettanto efficace a seguire un “taglio rosato di capocollo” (maiale, ovviamente) sfilettato e cotto alla brace, un sapore di grande ricchezza con un remotissimo sentore di aglio spinto a mille dalla crema di friarielli e dal rafano grattugiato. Altro che sofferenza! Un piacere sottile che ritrovo anche dietro l’angolo, nel Supplizio rinnovato. Sì, perché laddove si andava in pellegrinaggio per carpire al volo la bruciante crocchettona di riso dal cuore rovente e divorarla in piedi tentando di non far colare sugli abiti la mozzarella filante, oggi si trova una scelta maggiore e ben assortita. Altro che miseria e nobiltà, come si sarebbe liquidato un tempo il confronto tra lo street food e le tavole stellate. Ognuno combatte con le armi che ha, armi ovviamente diverse. Ma quando la crisi si fa sentire, non è detto che la tecnologia più avanzata batta sempre la mazzafionda.
Intendiamoci Dandini non è certo arrivato qui da poco, ma anche lui – non potendo più fronteggiare nella casa madre l’assenza della clientela abituale – ha traversato il Tevere, per rifugiarsi – assieme all’onnipresente complice Fabrizio Piazzolla – nel porticciolo dove aspettare che la buriana si plachi. Così, accanto ai mitici supplì (bianco, pomodoro e basilico, cacio e pepe, carbonara, amatriciana) compaiono alcuni piatti che ha portato con sé. Nella sua personalissima Arca, Arcangelo mette in salvo piatti tanto semplici in apparenza quanto difficili da realizzare al meglio ed esaltare: lasagnetta, carciofi, agnello e pecorino; trippa di vitello; favette e cicoria, polpette di lesso in salsa verde; polpette di alici col ‘garum’, zucca e castagne. Un concentrato di romanità essenziale, ricette di sopravvivenza fine e goduriosa che mi sento di paragonare alle pillole all’interno delle quali gli scienziati della Nasa da pionieri del gusto extraterrestre raccoglievano sapori e intuizioni con le quali gli astronauti potessero alimentarsi nei viaggi spaziali. Il nostro vantaggio è che non siamo chiamati a testare ingredienti improbabili, ma al contrario invitati a tornare un po’ all’antico delle ‘fraschette’ care agli antichi… E sono pronto a scommettere che quando gli archeologi tra mille anni e tra mille piatti scaveranno nelle cucine del nostro secolo, il supplì lo troveranno sicuramente!
Guido Barendson, Repubblica.it