«Tutti mi inseguono, ma io preferirei poter stare sempre un passo indietro»
Calciatore ammiratissimo, era perfetto anche fuori dal campo. Amava giocare all’attacco, eppure nel privato era quasi timido
(di Cesare Lanza per LaVerità) Ogni volta che penso a lui, mi viene in mente una parola, una parola sola: immensa, irraggiungibile dai comuni mortali, anche terribile, definitiva. La perfezione. Giacinto Facchetti è stato un calciatore perfetto, ma anche, prima e dopo, un uomo di esemplari comportamenti. Difficile, se non impossibile, trovare rilievi critici, su di lui. Una volta mi azzardai a chiederlo direttamente a lui, al campione ammiratissimo, celebrato in tutte le gazzette: «La tua è una vita da antologia scolastica, sei un simbolo dei perfetti comportamenti. Scusami non ti annoi, almeno un po’?», gli dissi. Facchetti sorrise e mi rispose con prontezza: «Scusami tu! È un modo per dirmi che ti annoi, nel seguirmi e nel parlarmi?». Perfetto anche in questo, rapido e ironico. Poi aggiunse: «Non è poi un obbligo seguirmi, occuparsi di me, intervistarmi… Chi mi conosce sa bene che preferirei restare sempre un passo indietro». Presumo che, a coloro che leggano, questa risposta potrebbe sembrare una superba, piccola sentenza. Ma non è affatto cosi: mormorava le parole quasi con timidezza, proprio come se volesse – lui giustificarsi. La verità è che «la perfezione» era un abito che la natura gli aveva tagliato addosso su misura: nel parlare, nella gentilezza, nel vestire e nel pettinarsi, nel sorriso, nel giocare, nei comportamenti. Nel libro di memorie (avvincenti, toccanti) di Gianfelice Facchetti, figlio di Giacinto, ci sono molti episodi interessanti, che ben definiscono l’eccezionale semplicità di vita del papà. In particolare ci sono alcune righe che ogni volta, al ricordo, mi emozionano e mi fanno riflettere sul senso della vita: «Senza dirlo a parole, rintracciava in tutto lo sport, calcio compreso, qualcosa di sacro, desiderava che anche noi figli fossimo educati a questo. Una volta mi disse: “Annusa i fili d’erba, certi giorni profumano di cielo”». C’è espressione più romantica, più poetica? Figlio di un ferroviere, visse la sua infanzia secondo tradizione, prendendo a calci un pallone nell’oratorio della città natale. Era un ragazzo di encomiabile bontà, incarnava (alla perfezione, rieccoci!) i valori di una intera generazione, quella cresciuta subito dopo le tragedie e le sventure del secondo conflitto mondiale: la generazione dei giovani, che nell’umiltà, e nei piccoli e grandi sacrifici della quotidianità, hanno trovato la spinta per «arrivare». E Giacinto «arriva» presto, molto presto.
Sono passati ormai quasi 6o anni dal giorno in cui Helenio Herrera, il Mago, valutando una prova (poco soddisfacente) del terzino Facchetti, disse: «Questo ragazzo sarà una colonna fondamentale della mia Inter». Giacinto, lo spilungone bergamasco, era nato dieci giorni dopo di me, e anche per questo mi fu simpatico: il 18 luglio 1942. Era al suo esordio assoluto in serie A, (21 maggio 1961, Roma-Inter 0-2). Non aveva combinato granché, ma la previsione di Herrera, come tante altre, si rivelò azzeccata. E Facchetti giocò (come una volta poteva succedere) sempre e soltanto nell’Inter. Sobriamente, secondo carattere, una volta ha detto: «Ci sono giorni in cui essere interista è facile, altri in cui è doveroso e giorni in cui esserlo è un onore». E un’altra volta, equilibrato e garbato: «Essere nerazzurri è un traguardo, un segno di eccellenza. Vi chiedo di urlare forza Inter con passione, ma senza rabbia». Può darsi che qualche lettore pensi che la mia ammirazione sia esagerata. Ma Giacinto fu un protagonista trasversale, nella storia di tutto il nostro sport, non solo dell’Inter. Ci sono numerose testimonianze, sulle sue virtuose qualità. Giorgio Napolitano: «Simbolo dello sport italiano, ha saputo dimostrare nel corso della sua lunga carriera non soltanto le doti tecniche di calciatore ma anche la correttezza, la compostezza e la professionalità come dirigente». Giovanni Arpino: «Vorrei che questo mio articolo di sport fosse l’ultimo. Vorrei che ogni famiglia italiana avesse un figlio come Giacinto, saremmo un Paese diverso e senza il 90% dei nostri guai, che derivano da una collettività inferocita e divisa, disonesta e ignorante». Beppe Bergomi: «Incarnava i valori dello sport, era rispettoso e aveva un gran carattere, un uomo vero». Gianni Petrucci, ex presidente del Coni: «Uno dei “Grandi Capitani”, per lunghi e gloriosi anni è stato l’emblema della nostra Nazionale di calcio». Fabio Cannavaro: «Giacinto Facchetti era il capitano dei capitani azzurri». Fausto Bertinotti: «È una figura esemplare non soltanto per le sue qualità di sportivo e di grande campione, ma anche per le sue doti di serietà, umanità e lealtà che hanno caratterizzato il suo impegno nel mondo del calcio prima da protagonista in campo e poi da dirigente». Vittorio Sgarbi: «Facchetti rimarrà nella memoria per le emozioni poetiche che ha acceso nei cuori: il contributo all’immagine di Milano, e di una grande squadra come l’Inter, non appartiene soltanto allo sport, ma alla memoria dei giovani che lo videro giocare, che lo hanno poi ritrovato allenatore. In una mitologia che, come nello sport agonistico è sempre accaduto, diventa letteratura». Fiorello: «È uno di quei rari casi in cui tutto quel che si dice quando viene a mancare una persona è vera. Grande persona e grande uomo; poi anche grande calciatore, grande sportivo, grande interista, insomma grande tutto…». Massimo Moratti: «Lui aveva la capacità di ascoltare, magari ero arrabbiato io o era arrabbiato lui, comunque riusciva a smontare, adagio adagio, l’arrabbiatura e riusciva a ricostruire qualcosa di utile per un ambiente che conosceva benissimo».
Ai suoi esordi Facchetti non era terzino, ma attaccante, poi il Mago Herrera lo sistemò in difesa: lo scatto, era l’arma in più che cercava, un terzino all’improvviso un’ala, goleador ma anche forte nei recuperi. Il ct Edmondo Fabbri lo chiamò in Nazionale: debutto il 27 marzo 1963 contro la Turchia a Istanbul (vince Italia 1-0), il primo gol dopo 20 mesi, al primo minuto (!) con la Finlandia, 6-1 per gli azzurri. Il 1963 è un gioiello, cominciano i grandi successi di Herrera. Con 49 punti, 4 di vantaggio sulla Juventus, l’Inter vince lo scudetto e l’anno successivo trionfa in Coppa Campioni sul Real Madrid, in tre partite. Ed ecco la sorpresa: Facchetti perfetto ma non sottomesso! I rapporti tra lui e Fabbri si incrinano. Giacinto non le manda a dire: «Il vero calcio italiano è quello dell’Inter e non quello della Nazionale italiana». E spiega di non riuscire a segnare in maglia «perché il signor Fabbri ci proibisce di andare avanti. Lui vuole solo pareggiare, e con i soli pareggi non arriveremmo da nessuna parte nel campionato del mondo in Inghilterra». Difatti: sconfitte con la Russia e addirittura con la Corea, il crollo più vergognoso nella storia del calcio italiano. Ma Facchetti risorge: dopo la Corea diventa capitano della Nazionale a soli 24 anni. Primo trionfo nel 1968 nel campionato d’Europa, poi vicecampione del mondo nel 1970, in Messico: la Nazionale è battuta solo, in finale, dal Brasile. Con il solito equilibrio, commentò pacatamente: «Mi volevano condannare allo ergastolo quando ci sconfisse la Corea ai Mondiali d’Inghilterra, e quattro anni dopo, quando vincemmo sulla Germania per 4 a 3 in Messico, raggiungendo la finale con i brasiliani, la polizia dovette fare un operazione di sicurezza per evitare che i tifosi prendessero mia moglie e ci portassimo in trionfo. Comunque, fra tanti difetti, il calcio è una delle poche cose che all’estero fanno parlar bene degli italiani». Nella metà degli anni Settanta, Facchetti chiede a Luisito Suarez – diventato allenatore dell’Inter di provare a fargli fare il libero. In questa veste riconquista il posto di diritto e, incredibilmente, ritorna in Nazionale per arrivare al suo quarto mondiale.
Ma ecco il dramma: s’infortuna e, stringendo i denti, torna, anche se non in piena forma. Quando Enzo Bearzot fa le convocazioni per Argentina, in un atto di grande sincerità sportiva, Facchetti gli confida di non sentirsi in forma e fa un passo indietro. In Argentina va come dirigente (è la sua prima volta): l’Italia arriva quarta. 94 partite da capitano azzurro, Facchetti lascia la Nazionale con un record, superato solo da Dino Zoff, Paolo Maldini e Fabio Cannavaro. Infine è vicepresidente dell’Inter dopo la morte di Giuseppe Prisco e presidente il 19 gennaio 2004, dopo le dimissioni di Massimo Moratti. Malato di tumore al pancreas, Facchetti si è spento a Milano il 4 settembre 2006. Ricordo sempre, perla mia ingenuità, la prima volta che lo incontrai per un’intervista: lui era già famoso e io un cronista imberbe. Mi accolse amichevolmente a pranzo, era in vacanza a Rapallo, e rimasi incantato, e sbalordito, per la sua educazione, la misura, qualità rarissima allora come oggi tra i miei coetanei, in particolare nel mondo del calcio. Non riuscii a strappargli una sola parola maliziosa verso i rivali delle altre squadre, men che meno verso i colleghi, gli allenatori, i dirigenti, i giornalisti. Solo in seguito capii e apprezzai la sua grandezza. Gianni Brera, mai tenero con nessuno, lo definì Giacinto Magno. Era anche incredibilmente corretto: fu espulso solo una volta in tutta la sua carriera, e non per una irregolarità di gioco, ma per un applauso ironico all’arbitro: dopo 14 campionati senza sanzioni, nel 1975. Non si poteva non volergli bene. Sua moglie, Giovanna, ha detto: «Tutti e due eravamo molto riservati, le uniche nostre foto insieme sono con i quattro figli (Barbara, Vera, Gianfelice e Luca)».