Airbnb, uno dei simboli della sharing economy, studiato e citato un po’ ovunque, ammette di avere il business in calo già dal 2015, di non avere mai prodotto un centesimo di utili, e, anzi, di aver perso un sacco di soldi, esercizio dopo esercizio, dal 2008 a oggi. La confessione si può leggere nei documenti S-1 della Sec che la società ha dovuto compilare per avviare l’iter di quotazione in borsa, più volte annunciato, e poi sempre rinviato: nel 2019 il gruppo era stato valutato 31 miliardi di dollari, i soci ora puntano a una valutazione simile pure in tempi di pandemia, ma molti analisti ritengono che sarà già un successo se si toccherà quota 15-18 miliardi di dollari.
Costretta, per la prima volta, a fare luce sui suoi conti, Airbnb svela di avere avuto ricavi per 2,5 miliardi di dollari (-32,4%) nel periodo gennaio-settembre 2020, con perdite per circa 700 milioni di dollari, più del doppio rispetto allo stesso periodo 2019.
Le cose sono andate molto male nel trimestre aprile-giugno, con ricavi a quota 335 milioni (-72% rispetto agli 1,2 miliardi del trimestre 2019) e il licenziamento di un quarto dei 7.600 dipendenti. Tra luglio e settembre, quando la gente ha ripreso ha viaggiare, il business si è parzialmente risollevato, con ricavi per 1,3 miliardi di dollari (-18,7%) e un profitto di 219 milioni di dollari.
Ma, tenuto conto della seconda ondata di pandemia che sta colpendo tutto il mondo, si possono comunque già stimare conti molto in rosso da ottobre 2020 in poi.
Sul capo di Airbnb pende inoltre l’indagine della Irs (l’Agenzia del fisco americana), che, per l’esercizio 2013, ha chiesto 1,35 miliardi di dollari di tasse dovute. Airbnb ha aperto un contenzioso, ma intanto l’Irs sta esaminando pure l’esercizio 2016, con il rischio di un’altra stangata. Tornando al business in sé, come detto, Airbnb ammette che la crescita dei ricavi è andata calando del 2015, con incrementi che dal +80% sono andati diminuendo a +55%, e poi +43%, fino all’ultimo +32% nel 2019.
Stop alle enormi spese di Airbnb in pubblicità e marketing, e un alert sulla consistenza del debito, pari a circa due miliardi di dollari, e che, come spiegano gli amministratori, potrebbe costringere la società a usare una gran parte della cassa per ripagare il debito stesso.
Insomma, quello che nello storytelling recente veniva portato a esempio di successo della gig economy o della sharing economy, si sta rivelando, come amerebbe dire Gordon Gekko, «un polmone».
E, d’altronde, di società che, per ora, non hanno saputo fare altro che perdere soldi è pieno il mondo delle app e della sharing economy.
WeWork, nata nel 2010 come società immobiliare che fornisce spazi di lavoro condivisi e flessibili, ha perdite di miliardi di dollari, superiori ai ricavi, è letteralmente sepolta dai debiti, brucia miliardi di dollari di cassa, e nel giro di un paio di anni è passata da una valutazione di 47 miliardi di dollari a una, attuale, di 2,9 miliardi.
Instacart, nata nel giugno 2012, si occupa di consegna e ritiro di generi alimentari in tutti gli Stati Uniti e il Canada: ha sempre perso soldi (in media 25 milioni di dollari al mese, ogni consegna è in perdita, per ammissione dello stesso amministratore delegato nel 2019), anche se nei mesi più duri del Covid-19 ha avuto risultati positivi.
DoorDash, nata nel luglio 2013, è la più importante app di delivery negli Usa, con il 49% del mercato (davanti a UberEats col 22% e GrubHub col 20%): nei primi nove mesi del 2020 ha ricavi per 1,9 miliardi di dollari, e perde 149 milioni di dollari (533 milioni nello stesso periodo 2019).
Lyft, nata nel giugno 2012 come società di car sharing e passaggi in auto, ha chiuso il 2017 con 688 milioni di dollari di perdite, e poi 911 milioni nel 2018, e ancora 2,6 miliardi di dollari nel 2019. Quanto al 2020, rosso per 398 milioni nel primo trimestre, 437 milioni nel secondo, 459 milioni di dollari nel terzo. Un disastro.
Uber, altro fenomeno della sharing economy nato nel marzo 2009, si iscrive pure lui al registro di coloro che non hanno mai prodotto un centesimo di utili nella sua storia. Anzi, è un accumulatore di perdite seriale: nel 2019 ha perso 8,6 miliardi di dollari e nel 2020 ha perso 2,9 miliardi nel primo trimestre, 1,8 miliardi nel secondo, 1,1 miliardi nel terzo. Al punto che molti analisti si chiedono come possa ancora stare in piedi un gruppo coi conti ridotti in questo stato. E che lavora sia nella mobilità (comparto che per lui vale 5,9 miliardi di ricavi), sia nel delivery (8,55 miliardi di dollari).
Claudio Plazzotta, ItaliaOggi