Obiettivo, migliori cure e più sostegno alle donne malate di tumore al seno. Il metodo? Quello che Rosanna D’Antona ha usato nella sua lunga carriera nel mondo della comunicazione e del public affairs e che, salutata Havas Pr, applica al network associativo Europa Donna Italia
Settembre, si sa, è il tempo dei propositi. Che spesso restano tali, relegati, un anno via l’altro, nel cassetto ricolmo delle buone intenzioni lasciate a metà. Non sarà così di certo per Rosanna D’Antona, potente imprenditrice della comunicazione e delle relazioni pubbliche e donna molto impegnata sui temi della leadership femminile. Per lei il settembre appena trascorso rappresenta uno snodo importante e meditato, una porta che si chiude – quella di Havas Pr – per lasciare spazio a molto altro: a cominciare da Europa Donna Italia, associazione e movimento di opinione sul tumore al seno, “creatura” cui si dedica con la maggiore consapevolezza di chi ha attraversato la malattia. Non per caso, salutando i colleghi di Havas Pr, ha mandato loro una vignetta di Pat Carra che ironizza sulla quantità di sogni: altro che cassetto, ci vuole un armadio a quattro ante… “Una decisione maturata, quella di lasciare. Facendo un po’ di conti, ho lavorato con circa 500 persone che sono cresciute con me e dato molto al mondo della comunicazione. Sui miei biglietti da visita ci sono le tappe fondamentali di un lavoro durato decenni: D’Antona&Partners, fondata nel 2003, e, dopo la vendita, ecco Havas Pr di cui ora lascio la carica di presidente onorario. E infine Europa Donna che presiedo: adesso per me è il tempo di portare nel terzo settore le tecniche manageriali e di comunicazione che servono E c’è tanto da fare”.
Prima – Ogni anno in Italia 53mila donne scoprono di avere un tumore al seno. I passi avanti nella ricerca e nella cura fanno sì che l’87% delle pazienti sopravviva, ma molte restano le questioni aperte. Di quali in specifico si occupa Europa Donna italia che presiede, avendo lei stessa vissuto l’esperienza della malattia?
Rosanna D’Antona – Europa Donna è un network europeo; in Italia è una rete che raduna sul territorio ben 151 associazioni. Advocacy è il termine corretto per definire la nostra attività che mira, nell’interlocuzione con le istituzioni pubbliche e la comunità scientifica, a migliorare la prevenzione, le terapie e la vita delle donne. Vede, dal tumore si può uscire in due modi: ripiegandosi su se stesse o ritrovandosi. A me la malattia ha dato una visione differente della vita che, per esempio, mi fa sentire serena anche nel passaggio di oggi. E qui io, che mi sono molto occupata di leadership femminile, ho incontrato donne di una qualità, un’intelligenza e una capacità di combattere che non trova eguali in altri contesti. quando mi ha chiesto di occuparmene, non ho potuto dire di no a Umberto Veronesi che 25 anni fa – lo Ieo era praticamente in costruzione – mi aveva operata. All’inizio, otto anni fa, Europa Donna Italia era giusto una scrivania con una volontaria ospitata nel mio ufficio. Da allora è cresciuta e oggi ci sono sette persone assunte, un team di volontarie qualificate e la rete delle associazioni nelle città: chi organizza lo yoga, chi sta negli ospedali, chi fornisce aiuto psicologico. Il punto in comune tra tutte è l’advocacy: siamo una lobby civile senza nessun interesse se non quello di ottenere norme e pratiche utili alle donne. E qui posso mettere a frutto la mia esperienza nelle relazioni pubbliche.
Prima – Una donna su otto nell’arco della vita si ammala di tumore al seno che é la neoplasia più diffusa.Qual è la richiesta che viene da questa popolazione?
R. D’Antonia – Presto detto: una cura di qualità secondo standard europei, vicino a casa e integrata. Un tumore al seno non è solo un tumore: c’è bisogno dello psicologo, come di chi esegua la mappa genetica. Quando abbiamo cominciato, il ministero aveva lanciato un’indagine sui luoghi di cura perché era appena passata la legge sulle breast unit, ovvero sui centri specializzati e multidisciplinari in cui le pazienti possono trovare ovunque lo stesso livello di cure. Bene, siamo ancora lontani dal risultato: non tutte le regioni, anche al Nord, hanno unità che rispecchiano in toto quegli standard e c’è un tema di disparità forte tra Sud e Nord che motiva flussi importanti di migrazione sanitaria. Con la Regione Emilia-Romagna abbiamo appena lanciato la prima campagna che vede insieme un ente pubblico è un’associazione per comunicare quali sono i 12 centri e qual è la loro offerta terapeutica. Tra le battaglie che stiamo portando avanti c’è anche quella sull’oncofertilità: le giovani donne colpite da tumore, devono sapere prima di affrrontare la terapia, come e dove conservare i loro ovociti. Con 11 Regioni abbiamo poi sotto scritto un accordo perché si impegnino ad avere nei loro centri lo psicologo, e questo si lega anche alla nostra attività sul tumore metastatico sul quale abbiamo commissionato un’indagine a Swg. Donne che un tempo sarebbero morte, oggi vivono per fortuna più a lungo e bisogna farsi carico delle esigenze che riguardano il supporto psicologico, oggi garantito solo a una su 4, la vita quotidiana, il lavoro. Il 13 ottobre in 61 città italiane abbiamo organizzato una giornata di sensibilizzazione sul tumore metastatico che vorremmo fosse istituzionalizzata: le donne del nostro network ne hanno fatte di tutti i colori compreso lanciarsi con il parapendio; noi abbiamo fornito logo e materiali di comunicazione compreso l’hashtag #13ottobreGiornataTSM.
Prima – L’attività associativa, soprattutto in settori dedicati come quelli legati alla salute, richiede sempre più competenze e capacità di interlocuzione con soggetti diversi. Come avete risposto a questa esigenza?
R. D’Antona -Proprio in questi giorni è partito il primo master di empowerment gestito da noi e dall’università Cattolica e rivolto alle donne delle nostre associazioni. Devono essere in grado di rapportarsi in maniera autorevole e competente non solo con le nostre pazienti e i loro familiari, ma anche con la comunità scientifica, con gli interlocutori istituzionali a livello locale e regionale, con i media. 50 donne in aula a Milano e 50 Roma per 50 ore impareranno a diventare punti di riferimento sul loro territorio: alcune lo sono già, altre devono imparare. Public affairs, rapporto con i diversi stakeholders, comunicazione con i media e attraverso i social: insomma, continuo anche qui il mio lavoro di sempre.
Prima – Informarsi su Internet su questioni sanitarie rischia di essere fonte di enormi e pericolose confusioni. Chi entra nel vostro portale cosa trova?
R. D’Antona – Informazioni verificate fino all’ultima virgola da un comitato scientifico di grande qualità. E ora anche l’ultima nata: Edi, nickname della nostra assistente virtuale che risponde 24 ore su 24 ai quesiti degli utenti. Uno strumento facile, intuitivo, ma al contempo affidabile in un’epoca di bulimia informativa: la società di software che ha implementato questo chatbot ha vinto un premio a Las Vegas dedicato alle applicazioni più utili dell’intelligenza artificiale.
Prima – Il vostro ultimo bilancio evidenzia un livello di entrate intorno ai 400mila euro. Come si finanzia la vostra attività?
R. D’Antona – Abbiamo un regolamento stringente che tutela la nostra autonomia e regola i rapporti con le aziende. Tra i nostri finanziatori ci sono aziende farmaceutiche…
Prima – Si potrebbe obiettare sull’opportunità di avere questo tipo di contributi.
R. D’Antona – Non me ne vergogno. noi siamo un gruppo di pressione che ha come unico obiettivo un migliore funzionamento del sistema sanitario: se c’è un’azienda o un’associazione scientifica che è interessata a sostenere un’associazione qualificata che porta avanti istanze sociali, va bene. Lo facciamo in trasparenza, e la maggior parte sono donazioni a fondo perduto. Direi che sono il 60%, ma mi è anche capitato di chiudere la porta dicendo che non eravamo interessati alla collaborazione. Un’altra modalità di raccolta fondi sono i pacchetti educational che forniamo alle aziende in materia di prevenzione, qualità della cura, stili di vita: da Poste Italiane a Mediobanca, a Hera per arrivare a Henkel, solo per citarne alcune. Poi ci sono i privati o le fondazioni: questi fondi servono a finanziare trasferte, convegni, lo stesso master che vale 3mila euro e che offriamo gratuitamente alle donne delle associazioni che, non dimentichiamolo, devono stare, per legge, nella breast unit e devono essere preparate per questo.
Prima – Cosa resta da fare? Obiettivi di questa nuova stagione?
R. D’Antona – Completare il network con le altre 50 associazioni che mancano all’appello. Per occuparci dell’accesso alle cure delle fasce più deboli: le donne immigrate, le giovani cui garantire la conservazione della fertilità, le portatrici di mutazione genetica per le quali studiare percorsi di sorveglianza attiva e di identificazione precoce della malattia. E ancora una maggiore attenzione a ciò che arriva dopo la cura, sia per coloro che hanno un tumore metastastico sia per le operate. Rispetto a 25 anni fa le cose sono sicuramente andate avanti. Non c’era Internet, io stessa sono arrivata quasi per caso da Veronesi. Non avessi fatto in tempo quella mammografia, forse non sarei qui. Ecco cosa mi ha lasciato quella esperienza: il gusto di assaporare la vita con maggiore consapevolezza. Sul fronte personale è così che affronto ogni nuova fase: al 60% dedicandola all’associazione e per il resto usando il mio grande interesse per le risorse umane e per le corporate social responsability attraverso i board di cui faccio parte, dalla Camera di commercio italofrancese al Global Women in Pr Italia. No, non fonderò nessuna nuova società. Di sicuro però mi iscriverò a un corso di swing.
Assunta Sarlo, Prima