Su Inside Over non abbiamo mai voluto abbassare la guardia e abbiamo raccontato sia delle problematiche di Germania e Stati Uniti sia dell’azione incerta delle banche centrali, chiamate a una nuova espansione monetaria pressoché permanente dopo che la crisi borsistica di fine 2018 si è rivelata essere provocata dall’abitudine di banche, società e imprese ai bassi tassi e al credito facile garantito dal quantitative easing permanente.
Quel che è certo è che il motore dell’economia globale si è ingolfato. Un acuto osservatore come Paolo Savona ha sottolineato che la crisi di sfiducia tra Stati Uniti e Cina dovuta alla guerra dei dazi potrebbe sfavorire la necessaria risposta multilaterale e l’emergere di una governance economica condivisa in caso di impatto di una nuova tempesta finanziaria, centrando un punto fondamentale: al contrario di quanto viene superficialmente citato in diverse occasioni, la guerra dei dazi non è la crisi che porterà il mondo alla recessione, tutt’altro. Risulta conflitto strategico, geopolitico e ideologico, impatta trasversalmente sugli altri punti deboli dell’economia globale ma non è il “cigno nero” che potrebbe degenerare in un nuovo crack.
Certo, a livello regionale un conflitto commerciale può colpire duramente: il caso della Germania ce lo testimonia eloquentemente e può ripercuotersi a livello europeo, dove secondo i dati diffusi da Eurostat l’inflazione a luglio è scesa all’1% dall’1,3% del mese precedente, mentre quello del Giappone, in cui l’industria manifatturiera trema, è abbastanza analogo. Ma Usa e Cina hanno il potere politico ed economico per scaricare all’esterno i costi del conflitto commerciale. Da tenere d’occhio è il fronte interno alle due superpotenze.
“Il 98% degli esperti intervistati tra il 14 luglio e il 1° agosto nell’ambito di un sondaggio condotto negli Usa dalla National Association for Business Economics, la più grande associazione professionale degli economisti aziendali, ritiene che l’economia statunitense entrerà in recessione dopo il 2019. Il campione è diviso tra chi posiziona l’inversione di marcia già nel 2020 e chi la prevede per il 2021″, scrive LaPresse. L’indicatore chiave che desta preoccupazione è il sorpasso del rendimento dei titoli a breve termine su quello dei titoli a lunga scadenza, segno del timore per un ciclo recessivo nei prossimi dodici mesi.
Per la prima volta da oltre un decennio, si è invertita la curva dei rendimenti dei titoli di Stato Usa tra la scadenza a 2 anni e quella a 10, attestati rispettivamente all’1,628% e all’1,619%. Inoltre il trentennale è scivolato a 2,0738%, al di sotto del minimo storico del 2,0882% registrato a luglio 2016: e tutto questo avveniva mentre Donald Trump annunciava il rinvio dei nuovi dazi contro la Cina, segno di un timore per problematiche endogene nel contesto americano. Mauro Bottarelli del Sussidiario si è chiesto il motivo per cui Donald Trump sia arrivato all’abiura sui dazi: a suo dire, “perché l’inflazione reale, quella tracciata dal carrello medio della spesa da Walmart, la più grande catena di distribuzione americana, a luglio è salita del 5,2%. Gli americani cominciano a patire realmente il caro vita e, cosa più grave, cominciano a rendersi conto che il Presidente sovranista in realtà non ha fatto nulla per il loro potere d’acquisto, nonostante le promesse elettorali”, dato che i salari medi crescono a un tasso assai più basso dell’inflazione e dell’espansione economica e la riforma fiscale del Presidente ha fatto festeggiare le borse, non la classe media.
Anche in Cina, comunque, il primo fronte è quello interno e non è vero, come si è letto, che la svalutazione dello yuan è il preludio a una nuova espansione della base monetaria e della liquidità da parte della Banca Centrale di Pechino: “Il dato del Total Social Financing di luglio è stato il secondo più basso da inizio anno. Motivo? Anche in questo caso, l’inflazione reale. La quale, in Cina, sta colpendo i prodotti alimentari, in particolare frutta e verdura e carne di maiale”, mentre il governo non riesce a produrre crescita al ritmo del passato, il credito bancario non decolla e Pechino ha dovuto salvare tre banche da inizio anno.
In una fase in cui il mercato ha fame di denaro facile, la forbice tra economia reale e finanza si divarica enormemente. In basso si vivono i problemi della quotidianità, in alto le società finanziarie dopano il mercato con prestiti a tasso zero che finanziano riacquisti di proprie azioni funzionali alla distribuzione di dividendi tramite aumento del titolo (buyback). Non è certamente la guerra commerciale ad aver dato i primi scossoni alle borse nell’ultimo periodo, secondo Bottarelli: “I soldi per i buybacks di massa stanno finendo. O, meglio, stanno finendo quelli garantiti prima dagli acquisti della Fed e poi dal rimpatrio a costo zero del capitali off-shore voluto fortemente (e a deficit) da Donald Trump con lo shock fiscale della scorsa primavera. Ora il costo di quei riacquisti di massa di propri titoli che hanno mantenuto finora gli indici a le valutazioni a livelli record sta salendo, troppo”.
La finanza rischia una volta di più l’osso del collo e, come spericolatezza nelle operazioni borsistiche, siamo ai livelli del 2007-2008: debito privato in volo negli Usa, banche come Deutsche Bank in crisi nera, i prestiti auto e studenteschi statunitensi potenziale copia dei subprime. Con l’economia reale, l’industria e il lavoro di centinaia di milioni di persone Cenerentole in attesa della mezzanotte. La stampa economica potrebbe aver iniziato a parlare di recessione quando è troppo tardi per prevenirla.
Il Giornale