La famosa maison francese, produttrice di cosmetici di alta gamma, l’ha spuntata ottenendo un importante riconoscimento della validità del proprio sistema di «distribuzione selettiva», cioè la rete di rivenditori iper-selezionata alla quale Sisley ha affidato le proprie fragranze e creme in regime di esclusiva. Una rete che spazia da Sephora a Douglas a Limoni, scelta per la particolare sofisticatezza nella consulenza alla clientela in negozio e sui rispettivi siti online.
che ha inibito il colosso tech, diventato in questi anni la più grande piattaforma distributiva al mondo, dalla vendita di prodotti Sisley perché deleteria per l’immagine del marchio, visto il suo attuale modello di business che non prevede una chiara distinzione tra il basso e l’alto di gamma, tra il lusso e low-cost.
Si tratta con tutta probabilità di una sentenza destinata a fare giurisprudenza. Che potrebbe indurre anche altri marchi prestigiosi e riconoscibili a chiedere la rimozione dei propri prodotti dal marketplace fondato da Jeff Bezos, nonostante la straordinaria capacità di indicizzazione su Internet che potrebbe scoraggiare chiunque ad aprire un contenzioso del genere. In controluce potremmo affermare che è anche un messaggio indiretto contro lo «showrooming», di chi sfrutta in maniera «parassitaria» i servizi nei negozi (e la consulenza del commesso, pagato come «ambasciatore» del marchio) per poi procedere all’acquisto in Rete ad un costo più contenuto.
L’avvocato Cesare Galli (che con la collega Mariangela Bogni dello studio IP Law Galli ha assistito Sisley) ritiene che questo provvedimento sia il primo del genere per altri due motivi. Nessuno finora ha avuto il coraggio di contestare il modello di business di Amazon, perché il marketplace si è ormai sedimentato nell’immaginario dei consumatori e molti marchi temono che una rottura con la piattaforma possa ridurre i ricavi, nonostante favorisca maggiormente chi non ha una particolare riconoscibilità sul mercato godendo persino di un effetto «trascinamento» dei brand. Soprattutto questa sentenza, applicabile solo in Italia perché la giurisdizione è quella del nostro Paese, potrebbe essere seguita anche in altri Paesi europei nel caso si configurassero cause analoghe. La Corte di giustizia Ue ha chiaramente esplicitato che spetta ai giudici nazionali il compito di verificare, caso per caso, se la vendita di prodotti da parte dei rivenditori in esclusiva a soggetti terzi possa «svilire» il marchio.
Così non è escluso che la vicenda Sisley-contro-Amazon possa diventare emblematica e tutelare in prospettiva una quota di posti di lavoro nel retail messo a dura prova dal boom dell’e-commerce e alle prese con una difficile (ma necessaria) coesistenza tra off-line ed online. La questione si sovrappone in parte a quella della tutela contro la contraffazione. Una recente direttiva Ue ha chiesto strumenti più sofisticati alle piattaforme di e-commerce per prevenire la vendita di prodotti falsi o contraffatti. Indicam, l’associazione di settore, lo ricorda puntualmente, soprattutto riferendosi alle piattaforme di ecommerce cinesi, per le quali il potere sanzionatorio dell’Authority Ue alla concorrenza risulta spuntato viste le differenti giurisdizioni.
Quel che è certo è che sta crescendo a dismisura il potere del consumatore, ribaltando i rapporti di forza con le aziende che si erano cristallizzati nell’era pre-Internet. Sta dis-intermediando sempre più le insegne distributive tradizionali. Non sempre in maniera eticamente inappuntabile, come insegna la battaglia sulla tutela del diritto d’autore e il proliferare dei siti-pirata nella visione di contenuti coperti da copyright. Certo l’innovazione deve fare i conti con lui se passa da un rivenditore specializzato, controlla se la sua scelta di acquisto slittando dal virtuale al reale tenga, poi torna a casa e compra il tutto con Amazon. Un comportamento che rischia di avere pesanti ricadute sociali e forse necessita di contrappesi.
Fabio Savelli, Corriere.it