Una vittoria frutto della sua personalità carismatica ma soprattutto della sua linea senza compromessi sulla Brexit, che lui ha giurato di voler portare a compimento entro il 31 ottobre a qualunque costo, «vivi o morti». Perché la base dei conservatori è stufa degli indugi e vuole l’uscita dalla Ue al più presto: e perché l’inconcludenza della May ha portato al successo il Brexit Party di Nigel Farage, a spese del partito di governo. I conservatori si sono affidati a Johnson perché vedono in lui l’unico in grado di riassorbire lo «scisma» faragista e allo stesso tempo sconfiggere il Labour di Jeremy Corbyn, percepito come la vera, grande minaccia. Non è un caso che proprio della necessità di sconfiggere i laburisti Johnson abbia parlato nel suo primo discorso da leader Tory, ponendo — insieme a questa — altre due priorità al suo mandato: quella di portare a termine la Brexit, ovviamente, e quella di unire (ed energizzare) il Paese.
Ma Boris eredita dalla premier uscente un calice avvelenato. La maggioranza su cui può contare in Parlamento è esigua, appena tre deputati, e i (pochi) conservatori filo-europei sono già sul piede di guerra per bloccare una Brexit catastrofica senza accordi; e dall’altro lato l’Europa non sembra intenzionata a fare alcuna concessione. I margini di manovra sono dunque molto stretti: per cui è probabile che Boris decida di andare presto a elezioni anticipate per ottenere un mandato popolare chiaro alla «sua» Brexit. Quale volto questa avrà, cominceremo a scoprirlo domani pomeriggio, quando Johnson pronuncerà il suo primo discorso sulla soglia di Downing Street.
Luigi Ippolito, Corriere.it