Nel corso dell’ultimo mese i social network sono stati inondati da immagini di volti invecchiati artificialmente con un’applicazione chiamata FaceApp. Da qualche giorno però si è cominciato a discutere con sempre maggior frequenza dei rischi per la privacy che l’applicazione, all’apparenza innocua e divertente, potrebbe comportare.
Le preoccupazioni non sono infondate. FaceApp, gestita da Wireless Lab, una startup russa con sede a San Pietroburgo, carica e conserva le foto da invecchiare sui propri server per applicare filtri basati sull’intelligenza artificiale. Non solo: i termini di servizio dell’applicazione sono molto vaghi sull’uso che l’azienda può fare di quelle foto e dei nostri dati, con formulazioni che non ottemperano per altro alla GDPR, la normativa europea sulla privacy e non specificano quali e quante “terze parti” possano avere accesso a quelle informazioni.
Da un giusto e sano scetticismo alle reazioni spropositate, però, il passo sembra sempre più breve. Il Senatore americano Chuck Schumer, preoccupato per il gran numero di volti americani che un’azienda russa sta raccogliendo con la scusa del simpatico gioco virale, ha chiesto formalmente all’FBI e alla FTC (la Federal Trade Commission) di aprire un’indagine su FaceApp, per capire che fine fanno le immagini e i dati raccolti dalla startup di San Pietroburgo. Per il Senatore Schumer avvisare gli americani sui rischi di FaceApp è diventata una crociata personale, tanto da giustificare la pubblicazione di un video in cui avvisa i suoi concittadini del pericolo che i loro volti finiscano in mani russe.
A warning for all Americans:
Millions downloaded #FaceApp from a Russia-based company.
Warn friends and family about the deeply troubling risk that your facial data could fall into the hands of something like Russian intelligence or military. pic.twitter.com/mnhlEeNU58
— Chuck Schumer (@SenSchumer) July 19, 2019
Nella sua lettera agli enti federali il senatore chiede inoltre di indagare sull’accesso “totale e irrevocabile ai dati degli utenti” e se l’app possa “rappresentare un rischio per la sicurezza nazionale e per la privacy di milioni di cittadini americani”. Il nocciolo della questione per Schumer è esplicitamente la nazionalità russa degli sviluppatori, che a suo dire “solleva dubbi su come e quando l’azienda possa fornire l’accesso a dati di cittadini americani a terze parti, inclusi governi stranieri”.
La preoccupazione è comprensibile, ed è innegabile che i termini di servizio di FaceApp siano fumosi e possano lasciare adito a molti dubbi. In particolare non c’è un modo semplice per cancellare definitivamente le proprie foto dagli archivi di FaceApp, se non tramite richieste esplicite degli utenti che passino attraverso il servizio clienti dell’applicazione. Tuttavia vari esperti indipendenti, inclusi molti ricercatori di sicurezza americani, hanno già chiarito che i fantomatici server su cui Wireless Lab carica le immagini non sono altro che istanze di AWS, il servizio di cloud hosting di Amazon, con sede in America. Ciò ovviamente non impedirebbe alla società di copiare o trasferire le immagini o i dati su server con sede in Russia e di condividerli successivamente con aziende di profilazione o servizi vicini al governo russo, ma non è possibile al momento attestare o provare alcuna intenzione malevole di Wireless Lab.
Inquadrare il problema con una lettura spiccatamente geopolitica rischia inoltre di spostare l’attenzione dal vero problema, e cioè la facilità con cui, in cambio di una piccola ricompensa (nel caso specifico, una foto divertente) concediamo i nostri dati alle piattaforme social e alle applicazioni senza sincerarci davvero di come verranno gestiti, usati e condivisi. Un problema che riguarda, ancor prima della privacy, la percezione del valore della nostra immagine e dei nostri dati. Per noi quella è solo una foto, scattata in pochi secondi, ma per la piattaforma su cui la carichiamo è un tesoretto di informazioni, (soprattutto se incrociata con la nostra posizione geografica, i nostri contatti, il nostro account social) che hanno un valore economico concreto. Che quella piattaforma sia Facebook, Google, Twitter, Instagram o una semisconosciuta startup russa che ha azzeccato l’applicazione giusta non fa molta differenza.
Andrea Nepori, Repubblica.it