La prima controffensiva di Maduro è arrivata nel pomeriggio, quando un tribunale di Caracas ha ordinato l’arresto dell’oppositore Leopoldo Lopez, ora rifugiato in una residenza dell’ambasciata spagnola, dopo aver violato gli arresti domiciliari.
La crisi infinita infiamma la piazza e innervosisce anche i rapporti tra Washington e Mosca, con il ministro degli esteri russo Lavrov che ha risposto stizzito alle dichiarazioni del suo pari americano Pompeo. «Non interferite negli affari del Venezuela o ci saranno gravi conseguenze». Mentre Trump continua a ribadire che tutte le opzioni sono sul tavolo, nei corridoi della Casa Bianca il fallimento della ribellione di martedì inizia a far pensare che la questione venezuelana è molto più difficile di quanto ci si poteva aspettare.
Nicolas Maduro, intanto, si è fatto vedere in parata militare assieme a migliaia di ufficiali a Fuerte Tiuna, il comando operativo delle Forze Armate nei pressi di Caracas. Ad ognuno la sua folla; Juan Guaidó sa di contare con l’appoggio di una popolazione stremata, ma l’erede di Chavez è tranquillo perché finora i militari stanno con lui. Una posizione di forza relativa per entrambi, ma che non basta a nessuno dei due per vincere. Un «pareggio tecnico» che gela gli slanci d’ottimismo su soluzioni magiche per uscire dalla crisi, internamente o sul fronte esterno. Lavrov e Pompeo si riuniranno la settimana prossima al meeting del Circolo artico a Rovaniemi e parleranno soprattutto del Venezuela.
Tra le righe della cronaca, fatta di scontri, morti, retorica e proclami ci sono, in fondo, più domande che risposte. Come è possibile che Guaidó dica da tre mesi che i militari stanno con lui se a ogni tentativo di spallata al regime le defezioni sono minime? Perché Maduro non lo fa arrestare, come ha fatto con tanti altri, considerando che Guaidó circolava in giro protetto da una scorta di non più di 20 uomini armati? Esiste un dialogo sotterraneo che non si vuole scoprire per non dare segnali di debolezza?
Nell’incertezza generale molti negozi e uffici rimangono chiusi, ma non è chiaro se è per lo sciopero generale proclamato dall’opposizione o se è più semplicemente perché in molti, con stipendi da fame e alimenti introvabili, non se la sentono nemmeno più di andare a lavorare.
Emiliano Guanella, La Stampa