Con il regime forfettario la percentuale da pagare è più bassa ma bisogna fare a meno delle detrazioni. Quelle per carichi di famiglia o per i lavori di ristrutturazione della casa, per esempio. La rinuncia a questi vantaggi va messa sul piatto della bilancia. Per i redditi più bassi, in alcuni casi può rendere addirittura svantaggiosa la flat tax. Questo è l’unico vero limite alla convenienza della misura. Per il resto si tratta solo di valutare l’entità del vantaggio. Che sarà minore in valore assoluto quando l’imponibile è più basso. E maggiore quando si arrivano a sfiorare i 65 mila euro. Altro importante elemento da considerare: il regime forfettario al 15% considera costi standard pari al 60% dei ricavi per i commercianti e pari al 22% dei ricavi in caso di lavoratore autonomo non iscritto ad albi. Chi alla fine dell’anno avesse sostenuto costi effettivi inferiori a queste quote avrebbe un motivo in più per scegliere il regime forfetario. Si troverebbe infatti ad applicare l’aliquota del 15% a un imponibile più basso di quello reale.
Ma il massimo del vantaggio ce l’avranno pensionati o dipendenti con partita Iva. Da una parte non dovranno rinunciare alle detrazioni, dall’altra potranno abbattere in modo consistente la tassazione sulla fetta di reddito legata alla partita Iva. Evitando anche la progressività della tassazione al salire degli scaglioni Irpef. In concreto, un dipendente con una retribuzione da 75 mila euro lordi più una partita Iva da 60 mila euro di fatturato, su questi ultimi 60 mila euro pagherà il 15% di tasse invece del 43%.
L’ordine dei commercialisti stima che su 3,8 milioni di partite Iva individuali (dato 2017, ultimo disponibile) i contribuenti interessati dalla norma saranno in tutto 475 mila. Quindi solo il 12,5%. Com’è possibile? Prima di tutto bisogna tenere conto che i liberi professionisti fino a 30 mila euro e i commercianti fino a 50 mila potevano già contare sulla flat tax al 15%. Inoltre non ha accesso alla nuova tassa piatta chi ha anche redditi o perdite derivanti da società di persone o associazioni professionali. Alla fine, secondo le stime dei commercialisti, i 475 mila che dovranno scegliere se approfittare o meno della normativa saranno così suddivisi: 260 mila piccoli imprenditori, 161 mila liberi professionisti, 54 mila agricoltori.
In generale, quella scattata dal Consiglio generale dei commercialisti è una fotografia della situazione a fine 2017. Ma le cose stanno già cambiando. Per evitare che i lavoratori dipendenti concordino con l’azienda l’uscita e il passaggio alla partita Iva, la nuova normativa prevede che la quota di fatturato imputabile all’ex datore di lavoro non possa superare il 50%. Basterà (forse) a bloccare la transumanza verso il lavoro autonomo. Ma potrebbe diventare conveniente per le aziende, rispetto ai nuovi bisogni di personale, ingaggiare un lavoratore autonomo invece di un dipendente.
«Si tratta sicuramente di un provvedimento interessante perché, in generale, va nella direzione dell’abbassamento della pressione fiscale — valuta il presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti e degli esperti contabili Massimo Miani —. Nello stesso tempo, però, bisogna tenere conto che le disparità di trattamento fiscale spingono il contribuente ad adattare la struttura della propria attività per cogliere l’opportunità». Tradotto: molti stanno già a inizio anno pensando a come riorganizzarsi in modo da sfruttare il beneficio. Poniamo due professionisti associati che insieme fatturino 120 mila euro. Dividendosi potrebbero avere un vantaggio. «Il rischio è che si determini un incentivo implicito alla disgregazione delle imprese e degli studi professionali — riflette Miani —. È auspicabile perciò che questo sia solo un primo passo nella direzione di un riforma più organica».
Rita Querzè, Corriere della Sera