Nel 2018 le banche centrali hanno comprato enormi quantità di oro, il massimo dal 1971, cioè da quasi 50 anni. Lo rivela il World Gold Council (Wgc), un’associazione industriale creata nel 1987 dalle principali aziende minerarie aurifere per stimolare la domanda di oro, secondo cui le banche centrali l’anno scorso hanno rimpinguato i loro forzieri di 651,5 tonnellate d’oro, il 74% in più rispetto all’anno precedente, per un controvalore di 27 miliardi di dollari. Attualmente il valore complessivo delle riserve d’oro detenute dalle banche centrali ammonta 1.400 miliardi di dollari, secondo l’Official Monetary and Financial Institutions Forum di Londra. La domanda globale di oro l’anno scorso ha toccato le 4.345,1 tonnellate, il 4% in più rispetto al 2017. A favorire la corsa all’oro sono le incertezze geopolitiche, a partire dalla Brexit, la volatilità finanziaria e lo stesso prezzo dell’oro, che ha superato quota 1.300 dollari l’oncia, aggiungendo così alla sua appetibilità, oltre alla qualità di bene rifugio, anche quella di bene speculativo in rialzo.
Ma dietro il rialzo delle quotazioni dell’oro, che da agosto ad oggi, in meno di sei mesi, ha messo a segno un rialzo di oltre il 12%, passando da circa 1.170 dollari l’oncia agli attuali 1.320, c’è molto altro. Perché tra i maggiori acquirenti di oro ci sono in particolare le banche centrali di Paesi come Russia, Turchia e Kazakistan , che desidero spostare verso un bene “reale” la proprie riserve, abbandonando così il dollaro statunitense. Tra i venditori netti di oro, nel 2018, il Wgc segnala le banche centrali di Australia, Germania, Sri Lanka, Indonesia e Ukraina, per un ammontare complessivo di 15,6 tonnellate, appena il 3% di tutti gli acquisti fatti dalle altre banche che hanno aumentato invece le loro riserve.
Marco Sabella, Corriere.it