La poetessa bambina che amava tutti. Specialmente i matti
Fu presa per pazza e torturata da chi aveva paura della sua diversità. A me i suoi versi istintivi e infelici rapirono l’anima
(di Cesare Lanza per Il Quotidiano del Sud) Ho già scritto una volta, vincendo il pudore, che ero (sono ancora, al ricordo) innamorato di Alda Merini. Ci si può innamorare virtualmente di Marilyn Monroe e di Ingrid Bergman, o di Brigitte Bardot e di Sharon Stone: succede a molti. Ma di Alda Merini? Il mio sentimento era e rimane tanto forte quanto ideale: per la poetessa più grande e infelice della nostra letteratura, per la donna incompresa e tormentata, torturata da medici inconsapevoli. Perciò, comunque, avevo anche aggiunto che speravo che nessuno sorridesse di me. Oggi non lo ripeto più. Nessuno, che io sappia, ha sorriso. Certo il mio amore era assurdo, irreale, romantico e cioè, letteralmente, adatto all’idea di un romanzo? Non so, non so. Era una illimitata attrazione per i suoi versi di straordinaria umanità? Non lo so! Era solidarietà e forse anche pietà per la sua ingenua e ostinata ribellione all’infelicità e alle torture? Neanche questo saprei dire. So però che mi batteva e mi batte forte il cuore, leggendo le sue poesie; so che ho provato emozione e turbamento, le poche volte che l’ho incontrata, una timidezza che neanche un adolescente alla prima cotta. Vi racconterò tutto, riuscii anche a farle capire ciò che sentivo. Quando venne in tv per un’intervista con Paolo Bonolis, mormorò con candore, coinvolgente fascino, questo pensiero che a memoria ricordo così: «Il demonio mi ha preso e mi ha trascinato all’inferno… Ma un poeta deve saper accogliere il bene e il male: il dolore e la gioia fanno parte della vita, sono incomprensibili… Poi il demonio forse si è impietosito e mi ha lasciata andare». Il male terribile di Alda era la sua diversità, perciò era brutalmente considerata matta da chi ne aveva paura: l’alternanza tra gli eccessi della voglia di vivere con gioia e quelli, autodistruttivi, della depressione. Alda non aveva limiti né pudore, si faceva vedere nuda; se ti riceveva nella sua casa umile sui Navigli a Milano ti offriva tutto ciò che aveva, vino, biscotti, indumenti, ricordi; era infantile, ma si esprimeva in termini di intelligenza estrema, come (pochi) adulti. E suscitava paura, questo era il problema. («Ho cominciato a piangere per gioco e poi ho creduto che questo fosse il mio destino»). I passaggi più coinvolgenti sono i riferimenti ai suoi compagni di sventura, nei manicomi dove l’avevano buttata. Con esaltazione ironica ha detto: «I miei amori sono di tipo randagio». E ancora: «Quelle come me sono quelle che, nell’autunno della tua vita, rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti e che tu non hai voluto». Tanti altri bellissimi pensieri ci ha regalato, li conservo nelle agende e nei miei diari. Il più coinvolgente è questo: «Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti sono simpatici, non come i dementi, che sono tutti fuori nel mondo. I dementi li ho incontrati quando sono uscita». E poi… «Devo liberarmi del tempo e vivere il presente giacché non esiste altro tempo che questo meraviglioso istante». «Mi sveglio sempre in forma e mi deformo attraverso gli altri». «Appartenere a qualcuno significa entrare con la propria idea nell’idea di lui o di lei e farne un sospiro di felicità». «Non ho più notizie di me da tanto tempo». «Il Paradiso non mi piace perché verosimilmente non ci sono ossessioni».
Forse non l’hanno amata come me, però molti prestigiosi personaggi la ebbero nel cuore. «Di fonti per la bambina Merini non si può certo parlare: di fronte alla spiegazione di questa precocità, di questa mostruosa intuizione di una influenza letteraria perfettamente congeniale, ci dichiariamo disarmati». «È una macchina d’amore» (Roberto Vecchioni). «Merini, le devo dare un grande dispiacere, ha vinto un premio» (Vanni Scheiwiller). Una volta Salvatore Quasimodo le disse: «Tu non puoi amarmi perché tu ami tutti». E Alda Merini: «Infatti pochi anni dopo finii in manicomio dove c’era tanta gente da amare». «Alda era innamorata della vita. Di fronte all’amore non capiva più niente. Mi manca la sua ricchezza interiore. Si è lasciata spremere. Non dava importanza alle cose materiali» (Valentina Cortese). «L’ho fotografata in casa sua, al telefono… È riflessa in uno specchio su cui sono scritti i numeri. La sua casa è un’esperienza mistica. Il giorno che le imbiancarono i muri, manca poco moriva. Mi ricordo che mi chiese: Mi trova piacente? No, risposi, la trovo intensa. E lei: ah, piacente no? Era molto dispiaciuta» (Guido Harari). «Per la Merini, i versi dovevano venir fuori di getto, come un fiotto di sangue da una ferita sempre aperta. Questa idea semplificata di poesia, che si lega intimamente a una vita maledetta, ha favorito la popolarità di una poetessa che nei suoi testi migliori non è per nulla semplice» (Paolo Di Stefano). Pochissimi sanno che, dell’esperienza d’internamento nel manicomio Paolo Pini, lei ricordava soprattutto la cosa più dolorosa: l’ordine da parte di un medico di non innamorarsi. Alda avvertiva tale peso ma, pur nella consapevolezza della malattia, continuava a cantare il suo essere, il suo mondo: «Qualcuno ha fermato il mio viaggio,/ senza nessuna carità di suono./ Ma anche distesa per terra/ io canto ora per te/ le mie canzoni d’amore».
Una sola volta ho incontrato la divina poetessa con un po’ di tempo e di calma, a tu per tu: quando accettò di partecipare al programma di Bonolis Il senso della vita, per un’intervista che si rivelò di insolita verità. Ero innamorato da sempre di lei, ma non ho mai avuto il coraggio di dirglielo. Mai. Pur avendone avuto l’opportunità, il coraggio mi è sempre mancato. Ecco cosa avrei voluto dirle, e qui lo scrivo, perché non voglio morire tenendo dentro di me questo rimpianto. «Alda», avrei voluto dirle, «consentimi di rivelarti che, semplicemente, io sono innamorato di te. Le tue poesie mi entrano nella pelle, restano nell’anima: sono carezze e tenerezze, schiaffi e pugni. Mi torturano, mi commuovono e mi esaltano. Ma non è solo la poesia che mi ha sedotto». E se lei – questo è il mio film privato, che mi sono raccontato per anni – mi avesse chiesto che cosa provassi al di là della poesia, le avrei risposto così: «Mi perdonino le donne che generosamente mi hanno dato il loro amore, brevemente, per qualche ora, o per lunghi anni: la donna che ho sempre sognato è una donna come te, fortissima, ma anche fragilissima, come nessuna mai. Hai resistito a dodici anni di manicomio, quanti ci sarebbero riusciti?». Poi, immaginavo che la poetessa mi avrebbe osservato con quello sguardo profondo e malinconico, che metteva i brividi, e avrei concluso: «So bene, Alda, che non avrei potuto mai conquistarti. Ricordo bene ciò che hai scritto una volta: “Nessuno può illudersi di prendere in pugno un poeta, gli sfuggirebbe sempre tra le dita”». Mai sono stato capace di mormorarle queste parole.
Solo una volta, prima dell’intervista con Bonolis, mi spinsi a chiederle perché l’amore fosse così importante per lei. Eravamo soli, nel suo camerino. Da qualche parola, dai miei indugi probabilmente lei capì tutto. Ero emozionato, le mani mi tremavano. Alda mi osservava in silenzio, puntandomi gli occhi addosso, e alla fine mi disse: «Perché l’amore è importante? Purtroppo sono attimi che spariscono in un lampo. Forse anche per te, forse anche adesso, o no?». Sono convinto che Alda, essenzialmente, fosse bipolare. Tutto qui! Una malattia grave ma curabile: con farmaci e terapie da seguire con costanza e con pazienza. Bipolare, come molti. Guaribile. Sostenibile. Invece si è rischiato di massacrare, di annullare, il più grande talento che l’Italia abbia avuto nella letteratura per quanto riguarda la poesia femminile. Un immenso talento. Mi viene da sorridere quando sento o leggo che Alda Merini fu presa in considerazione per il premio Nobel. È qualcosa che viene scritto in buona fede. Ma sorrido perché, in realtà, fu vittima di una grave ingiustizia, molte volte avrebbe meritato, strameritato il premio, rispetto a coloro che lo ottennero. Comunque sia, una volta, Alda disse: «Rifiuterei: in Svezia fa troppo freddo». Era nata a Milano il 21 marzo 1931, il primo giorno di primavera. Una creatura subito segnata da una straordinaria sensibilità e dalla vocazione alla poesia. Prima ancora che compisse 15 anni, ai suoi versi si interessarono Eugenio Montale e Quasimodo e un nume della cultura, Giorgio Manganelli. Ma proprio nell’adolescenza, l’età più delicata, Alda fu soffocata dalla depressione. E lì cominciò il suo calvario. L’incomprensione, l’emarginazione, l’esclusione, l’annullamento esistenziale. Mi vengono i brividi, oggi, al pensiero di come fu trattata. Le furono inflitti 46 elettroshock. Nel 1947 incontra «le prime ombre della sua mente» e viene internata per un mese in una clinica psichiatrica. Nel 1954 sposa Ettore Camiti, proprietario di alcune panetterie di Milano, con il quale avrà un rapporto tormentato e burrascoso intervallato dalla nascita delle quattro figlie: Emanuela, Barbara, Flavia e Simona. Nel 1962 inizia un difficile periodo di silenzio e di isolamento, dovuto al nuovo ricovero al Paolo Pini, che dura fino al 1972. Nel 1981 muore il marito, e la Merini nel 1986 affronta nuovamente gli orrori dell’ospedale psichiatrico. Dal 1989, per gli anni seguenti, il ritorno sulla scena letteraria. Nel 2004 vengono musicate diverse poesie cantate da Milva, ma proprio nello stesso anno le condizioni di salute di Alda peggiorano e il 1° novembre 2009, per un tumore alle ossa, la Merini muore all’ospedale San Paolo di Milano. Alda aveva un bisogno carnale, spirituale, poetico di amare; e ha avuto innumerevoli amori. Il più incredibile e romantico, quello con Michele Pierri, medico e poeta di oltre 30 anni più anziano di lei, sbocciò e si sviluppò al telefono: lunghissime conversazioni, senza conoscersi. Poi si incontrarono, decisero di sposarsi, vissero a Taranto. Il loro appuntamento erotico, il convegno d’amore, era ritrovarsi a letto, stesi l’uno accanto all’altra, e recitare a memoria, dedicandosele, poesie famose: le preferite erano quelle di Pablo Neruda. Come te non ne ho conosciute altre, Alda. E quanto ti avrei voluto! Solo quando ti sei spenta, finalmente sei stata onorata da tutti con quell’ambiguo sentimento di colpa da cui la società è colta quando non sa riconoscere e apprezzare, e per di più ha tormentato, i suoi geni in vita. Avrei voluto venire a piangere sulla tua tomba, Alda cara, e lasciarti un biglietto: «Io ti ho amato. In silenzio». Ma neanche questo ho avuto il coraggio di fare.