Se siete tra le decine di migliaia di cittadini italiani che tra il 2014 e il 2017 hanno pagato una Tari (la Tassa sui rifiuti) maggiorata e che attendono dal comune di residenza il rimborso promesso, mettetevi il cuore in pace, quei soldi probabilmente non li rivedrete mai. Alla luce delle varie sentenze pronunciate da Corte dei Conti e, soprattutto, dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, infatti, quel credito appare sempre più inesigibile.
E in ballo non ci sono cifre trascurabili, se si pensa che solo per il Comune di Milano si parla di oltre 50 milioni di euro complessivi per il quadriennio e di 145 mila potenziali aventi diritto (tanti sono i proprietari dei 180 mila box del capoluogo lombardo), sebbene le richieste di rimborso presentate siano state 3 mila circa. Ai milanesi vanno poi aggiunti gli aventi diritto residenti a Genova, Napoli, Rimini, Cagliari, Siracusa, Ancona, Catanzaro e in centinaia di comuni minori. Un conto aperto che, se dovesse essere pagato, metterebbe a durissima prova i bilanci di molte amministrazioni locali italiane. Ma, nonostante le rassicurazioni pronunciate dai sindaci– primo fra tutti dal primo cittadino di Milano, Giuseppe Sala – circa sicuri e veloci rimborsi, la realtà a due anni di distanza è assai diversa.
A trasformare un sicuro rimborso in un probabile addio ai soldi versati, le 15 sentenze già emesse della Commissione tributaria provinciale di Milano, le quali hanno tutte dato torto ai cittadini. Tutte sentenze che non sono state appellate in secondo grado, perché la sconfitta appare abbastanza sicura. A “regalare” la vittoria ai comuni, come si legge nella prima sentenza promulgata a Milano il 19 ottobre 2018, il fatto che “il legislatore non ha mai precisato il concetto di pertinenzialità». Quindi, agli occhi della legge, palazzo Marino “per gli anni in esame”, avrebbe giustamente applicato la maggiorazione perché “era dovuta anche per i box di pertinenza la quota variabile, come applicata dal Comune”. E, nelle 14 pronunce successive, non ci si è mossi da questo concetto.
Il che è un gigantesco paradosso burocratico-legale, considerando sia la circolare emessa dal ministero dell’Economia e delle finanze nel novembre del 2017, che specificava come fosse “corretto computare la quota variabile una sola volta in relazione alla superficie totale dell’utenza domestica”, sia il fatto che per l’anno 2019, i comuni conteggiano la quota fissa una volta sola!
Per assaporare a pieno di ogni risvolto di questa “storiaccia” burocratica, bisogna riavvolgere il nastro all’8 marzo 2017, quando l’on. M5s, Giuseppe L’abbate, interroga l’allora sottosegretario all’Economia, Pier paolo Baretta su presunti errori di calcolo della Tari. Si scopre così che centinaia di comuni italiani avevano inviato bollette errate. La Tari, infatti, si compone di una quota fissa (i metri quadrati dell’immobile) e di una variabile (numero di componenti della famiglia). Le tariffe sono però riferite all’“utenza”, comprensiva delle pertinenze (garage, cantina, solai, mansarde). L’errore è stato che i Comuni hanno applicato ad ogni unità immobiliare sia la quota fissa sia quella variabile, mentre quest’ultima, essendo correlata solo al numero degli occupanti, andrebbe associata all’intera utenza. Risultato? Molti Comuni hanno calcolato più volte la componente variabile (cioè il numero di persone che vivono nell’immobile), conteggiandola sia per la parte principale dell’immobile che per le pertinenze. Una “svista” non da poco: per un’abitazione da 100 metri quadri con 4 persone e 3 pertinenze (garage, cantina, box), per esempio, la bolletta è lievitata indebitamente di circa 400 euro. Per quattro anni consecutivi! A rendere ancora ulteriormente confusa la questione, la mancanza di chiarezza: ci sono infatti amministrazioni che hanno fatto pagare somme non dovute solo sui box, altre sulle cantine, altre ancora tutte le pertinenze delle abitazioni. inoltre, manca una politica univoca a livello nazionale sul comportamento da tenere. Per questo, quando si è parlato di “Tari da restituire”, si è spesso guardato a ciò che faceva l’amministrazione milanese, la prima a rendere di petto il problema e ad agire con una certa determinazione per risolvere la questione.
Dopo la scoperta dell’errore, dicevamo, c’è stata la corsa dei sindaci a promettere rimborsi rapidi e sicuri. Tuttavia il primo stop è arrivato con la determinazione n. 139/2018 della Corte dei Conti della Lombardia, la quale, pur non entrando nel merito alla legittimità dei ricorsi, ha però ammonito Palazzo Marino a non procedere con rimborsi diretti, pena possibili procedimenti per danno erariale. Quindi, un secondo paradosso: i sindaci che erano pronti a rimborsare i cittadini, come Sala, si sono visti negare la possibilità di farlo.
Così si è detto ai cittadini di Milano (ma lo stesso vale per quelli delle altre città) che per riavere il denaro, avrebbero dovuto presentare comunque la domanda di rimborso ai comuni – necessaria per bloccare la prescrizione, che scatta dopo 5 anni – , ma anche adire singolarmente alle commissioni tributarie provinciali. Tuttavia queste, quando chiamate a decidere, si sono sempre espresse a favore dei comuni e contro i cittadini.
Ora, non tutto è deciso definitivamente, c’è sempre la teorica possibilità che un contribuente vinca un ricorso in appello (da presentare alla commissione tributaria regionale) o che arrivi una sentenza favorevole al singolo cittadino in primo grado. Allora i giochi si potrebbero riaprire a causa della disomogenieità dei giudizi. Ma è un’ipotesi assai remota. Per questo chi attende i soldi è meglio, come dicevamo, che si metta il cuore in pace.
Andrea Sparaciari, Business Insider Italia