Rifiutò Marion Brando e Liz Taylor perché li considerava inguardabili
Era un genio, ma pazzo, maldicente e privo di buone maniere. Detestava le persone brutte. Per lui De Niro, Hoffman e Al Pacino erano «nani etnici, con la faccia strana». Di Hollywood disse: «È mia fossa di serpenti» La figlia, per vederlo, doveva prendere appuntamento con la segretaria. Con Rita Hayworth ebbe un rapporto devastante e infelice Era sempre a dieta stretta, poi di notte svegliava lo chef chiedendo bistecche e patate Morì di notte abbracciato alla macchina per scrivere
(di Cesare Lanza per LaVerità) Un autentico genio, che merita un immenso capitolo nella storia del cinema. Molto discutibile Orson Welles, invece, come uomo. Gli esempi, gli episodi sono numerosi. Basta prender nota del racconto della figlia Christopher, che ha raccontato con parole crude il rapporto col padre. Orson aveva deciso di chiamarla Christopher, perché fosse «unica», femmina con un nome maschile. «In classe i compagni mi chiedevano l’autografo di mio padre e quando rifiutavo mi accusavano di essere antipatica e presuntuosa, ma io non potevo confessare la verità, e cioè che non avevo idea della prossima volta in cui l’avrei visto», ha scritto nella sua autobiografia In myfather’s shadow (All’ombra di mio padre). «Non ci si può aspettare che uno come Orson, un genio, si comporti come un qualsiasi padre»: la segretaria le spiega con quelle parole perché abbia problemi a fissarle un appuntamento nell’agenda di Welles, affermato e popolarissimo dopo La Signora di Shangai. Non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro: la figlia Chris aveva il anni ed era costretta, per vedere il papà, a chiedere un formale appuntamento. Welles si era separato da pochi mesi da Rita Hayworth, sposata subito dopo il divorzio da sua madre, Virginia. Eppure, scrive Chris, «Rita mi mancava terribilmente». Perché aveva sognato di trasferirsi nella loro casa di Hollywood, dieci stanze e giardino con piscina, anziché trascorrervi qualche weekend: «Chiesi alla mamma perché non potevo più vedere Rita e lei mi spiegò che si comportava da pazza con mio padre e con la mia sorellastra». Racconta Chris: « Non vidi mio padre per due anni, fin quando non passai . IL un Natale con lui aParigi. Successe che r i c o n o b b e Humphrey Bogart e Lauren Bacali in un caffè. Quando ci presentò la cosa importante per me fu sentire l’orgoglio nella sua voce che diceva «Questa è mia figlia Christopher, la mia primogenita». 1 genitori di Orson erano Beatrice Ives, pianista e suffragetta americana, e Richard Welles, che possedeva una fabbrica di furgoni e nel tempo libero si improvvisava inventore. Orson era un bambino prodigio, imparò presto a suonare e si dedicò alla pittura. A 3 anni apparve in alcune opere teatrali: Sansone e Dalila e Madama Butterfly. Quando aveva 4 anni, i genitori divorziarono e lui si trasferì con la madre a Chicago. Nel 1924 la madre Beatrice morì prematuramente a 43 anni: Orson soffri moltissimo per la perdita, decise di abbandonare la professione musicale e tornò a vivere con il padre Richard, viaggiando in giro per il mondo. Una delle mete di viaggio fu Shangai, per un lungo periodo di tempo. Durante la tormentata giovinezza continuò la sua attività artistica, interpretando vari personaggi in diverse tragedie shakespeariane. Nel 1930 ci fu anche la perdita del padre, per cui venne affidato all’amico di famiglia Maurice Barnstein e ottenne il permesso di fare un viaggio in Irlanda. Welles ebbe tre mogli: dal 1934 al 1940 Virginia Nicholson, che sposò quando aveva solo 19 anni. Dal 1943 al 194761 sposato con una delle più grandi attrici dell’epoca, Rita Hayworth e con lei recitò nel film da lui diretto, il citatissimo La signora di Shangai (1947). Fu una relazione devastante e un matrimonio infelice, soprattutto a causa dell’egocentrismo di Welles. La terza e ultima moglie gli fu vicina fino alla morte: Paola Mori, attrice italiana, con la quale si sposò nel 1955. Welles ebbe una figlia da ognuna delle sue mogli: ho ricordato Christopher, da Virginia; Rebecca da Rita Hayworth e infine Beatrice dalla Mori. Tre femmine. Si dice che Michael Linsday-Hogg, un regista, fosse un suo figlio illegittimo, per una relazione extraconiugale con Geraldine Fitzgerald, che durò mesi (durante i quali la donna visse con Welles a Beverly Hills portando avanti la sua gravidanza, mentre il marito viveva a New York). La somiglianza fisica e il comportamento affabile e paterno di Welles confermano l’ipotesi, ma il test del Dna non l’ha accettato: si svolse con procedure improprie. Welles entra nella storia il primo maggio del 1941, a New York City. La sala del Palace vede infatti l’anteprima mondiale di Quarto potere, sensazionale esordio di Orson, destinato a diventare uno dei film più importanti nella storia del cinema. La casa di produzione Rko scritturò Welles offrendogli cioche mai prima di allora era stato concesso a qualcuno, neanche ad Alfred Hitchcock o John Ford. Welles ottiene infatti il cosiddetto final cut, cioè il completo controllo artistico del proprio film grazie al diritto di dire l’ultima parola sul suo montaggio finale. Era giovanissimo e privo di esperienza pratica nel mondo del cinema: tuttavia scrive, dirige e interpreta un assoluto capolavoro. Quarto potere racconta la storia del magnate Charles Poster Kane dall’infanzia fino a quando muore. E Orson lo interpreta per un tempo che va dai 25 ai 78 anni d’età, grazie a straordinari truccatori. Con incredibili sacrifici: è obbligato a farsi trovare in sala trucco alle 2.30 del mattino per poter essere sul set alle 9. Welles non trascura neanche i minimi particolari. L’attrice Dorothy Comingore interpreta la seconda moglie di Kane. Le esigenze di copione richiedono che lei abbia un forte odio per lui, quindi durante le riprese Orson (che interpreta Kane) la tratta arrogantemente davanti alla troupe, umiliandola in continuazione. Il compositore Bernard Herrmann, autore delle musiche di film come Taxi Driver e Psycho, esordiva proprio con Quarto potere. Welles l’ha voluto anche se Bernard non aveva mai lavorato nel cinema. Così Herrmann chiese un compenso da esordiente, ma Welles ottenne che fosse retribuito come un esperto professionista. La trama di Quarto potere è ispirata alla figura di William Randolph Hearst, potentissimo magnate della carta stampata. Hearst impedisce ai suoi giornali di dare risalto e pubblicità al film: è indignato dal personaggio di Charles Foster Kane. Ed è anche a causa dell’ostruzionismo di Hearst, se Quarto potere è un fallimento al botteghino, nonostante l’apprezzamento entusiastico da parte dei critici. William Randolph accusò addirittura Orson Welles di essere comunista, sperando di bloccare l’uscita del film. Si disse anche che avesse prezzolato un’attricetta per gettarsi nuda fra le braccia di Welles nella sua stanza d’albergo: allo scopo di farlo fotografare dai paparazzi in un momento imbarazzante. Ma Welles, informato, scelse di dormire altrove, quella notte. Un fiasco! Rko nerse 160.000 dollari. Quarto potere agli Oscar si presentò con nove candidature, ma vinse una sola statuetta, per la miglior sceneggiatura originale. E i detrattori del film fischiarono ogni volta che il titolo era nominato alle varie candidature. I suoi comportamenti e la ferocia delle sue battute contribuiscono a una leggenda intramontabile. Welles lasciava la sedia a rotelle sul retro del Ma Maison, il suo locale preferito a Los Angeles, e faceva un ingresso maestoso, zoppicante, dalla cucina del ristorante. Un uomo gigantesco, occhi fiammeggianti e un barboncino in braccio, Kiki, «grande quanto una scatola di Kleenex». Si sedeva sempre allo stesso tavolo, su una sedia enorme, un vero trono. Gore Vidal spesso pranzava con lui e racconta che Welles si vestiva «con delle tende riadattate, a cui attaccava il bavero, le tasche e i bottoni per dare l’illusione di un abito normale». Era a dieta strettissima, mangiava solo insalate di granchio, ma invitava i commensali a ordinare il meglio: «Assaggia e dimmi com’è, mi chiedeva», ricorda l’amico Henry Jaglom. «Non immaginavo che al ritorno in albergo avrebbe svegliato 10 chef nel cuore della notte per farsi portare quattro bistecche, sette contorni di patate arrosto e tanta altra roba». Dal 1983 al 1985, quando Orson Welles morì, di notte, abbracciato alla macchina per scrivere su cui stava scrivendo una sceneggiatura, ciò che accadeva nei pranzi era meticolosamente registrato. Zsa Zsa Gabor, Richard Burton e mezza Hollywood andavano a rendere omaggio al genio di Quarto Potere, che aveva il carattere peggiore del mondo, a vedere quanto era ingrassato. Tre anni di insalate di granchio, capesante, grugniti, risate mefistofeliche, un barboncino che abbaiava agli avventori, la voce di Welles che rispondeva: «No. Come vedi sto mangiando» a Richard Burton che voleva presentargli Elizabeth Taylor. 11 registratore restava nascosto nella borsa di Henry Jaglom, regista, critico cinematografico e cultore assoluto di Orson Welles, 25 anni più giovane di lui. 140 nastri sono poi rimasti chiusi in una scatola da scarpe per decenni. Adelphi ha pubblicato A pranzo con Orson, a cura di Peter Biskind, tutte le conversazioni: intime, pazze, torrenziali, Welles raccontava di quel critico teatrale famoso che non lasciava mai mance e a cui il cameriere, in cucina, pisciava dentro la tazza di tè. Maldicente, il genio, in modo irresistibile, anche bugiardo, nella costruzione della leggenda di sé. L’uomo più sexy, super intelligente, alto e biondo, colto e pazzo, felice di litigare, autodistruttivo, privo di buone maniere. «Se per me Bette Davis è inguardabile, non voglio nemmeno vederla recitare… Woody Alien mi ripugna fisicamente, detesto gli uomini fatti in quel modo… Non sopporto nemmeno di parlarci. Ha la sindrome di Chaplin. Quella combinazione unica di arroganza e insicurezza che mi dà l’orticaria». Aveva fissazioni sull’aspetto fisico: «Se penso che una persona sia brutta, non mi sta nemmeno simpatica. Secondo me le differenze tra le razze ci sono. I sardi, ad esempio, hanno le dita corte e tozze. I bosniaci sono senza collo». E spiegava che Marion Brando era intollerabile perché «senza collo. Sembra un salsiccione. Una scarpa fatta di carne». Non voleva conoscere Elizabeth Taylor per lo stesso motivo, per via del collo e perché riteneva avesse trasformato Richard Burton in una barzelletta, «l’appendice di sua moglie diva». Non avrebbe mai in gaggiato Dustin Hoffman, Robert De Niro 0 Al Pacino: J? «Niente nani etnici. Non voglio gente scura con la faccia strana». Alcune sue battute: «Hollywood? Si vive in una fossa di serpenti. Per 40 anni ho nascosto a me stesso che odio Hollywood. E se non arrivo ad ammettere che la disprezzo è solo perché, alla fine, è l’unico posto dove posso andare». «Non prego perché non voglio annoiare Dio». «Ci sono tre cose, nella vita, che non sopporto: il caffè bollente, lo champagne tiepido e le donne fredde».