Basato su 25mila cv trafugati in qualche modo dall’azienda – questo è uno dei punti più complessi, pare fossero già stati diffusi online dopo i furti nei database di aziende specializzate nella selezione di personale – e appartenenti appunto a impiegati e dipendenti, lo studio è stato condotto da Christopher Balding, professore della Fulbright University Vietnam di Ho Chi Minh City, e dal centro studi londinese Henry Jackson Society. Secondo Balding, alcuni dei dipendenti sarebbero stati simultaneamente assunti e operativi anche nell’organico di istituzioni ed enti legati agli apparati militari cinesi.
Non solo: il paper – che ne segue un altro dello scorso aprile da cui si evinceva la nebulosità dell’effettiva proprietà del colosso – spiega che “personale tecnico chiave di medio livello impiegato da Huawei ha forti retroterra professionali associate alle attività militari e alla raccolta di informazioni”. Addirittura alcuni di questi esperti potrebbero essere collegati “a specifici fatti di spionaggio industriale o di hackeraggio effettivamente avvenuti ai danni di organizzazioni occidentali”.
La guerra del 5G
Negli ultimi mesi, almeno dall’arresto in Canada – all’inizio di dicembre – di Meng Wanzhou, direttore finanziario ed erede del fondatore dell’impero delle telecomunicazioni Ren Zhengfei – Huawei è diventata l’ago della bilancia della spietata guerra commerciale in corso fra Washington e Pechino che, al momento, sembrerebbe congelata e in attesa di una ripresa dei negoziati. Anche per il colosso hi-tech, impegnato sia nella produzione di smartphone (è leader di mercato europeo) che di infrastrutture di rete anche per la nuova generazione di reti mobili, quella del 5G. Per questo Trump tenta da mesi di accavallare due letture del confronto, incastonando all’interno del muro contro muro commerciale la questione del rischio per la sicurezza nazionale rappresentato dai dispositivi del gruppo fondato nel 1987 da Zhengfei, d’altronde egli stesso ex ingegnere dell’Esercito popolare fra il 1974 e il 1983. E vietando così i rapporti di fornitura con le aziende statunitensi come Google o Intel.
Raccogliendo non troppo successo fra i suoi alleati europei, l’inquilino della Casa Bianca sta pressando da tempo i governi europei perché escludano Huawei dalle gare per la costruzione delle reti 5G in partnership con i diversi operatori locali. Potrebbe esserci il rischio, questa la tesi a stelle e strisce, di spionaggio con l’installazione di backdoor, accessi riservati nelle antenne e nelle reti: punti d’ingresso nei dati di centinaia di milioni di persone utili a Pechino per controllare le informazioni degli utenti occidentali ed espandere il proprio controllo planetario. Huawei ha ovviamente più volte smentito ogni ipotesi del genere così come i rapporti con il governo comunista, sostenendo come il controllo del gruppo sia al 100% in mano ai dipendenti.
“Tra Huawei e l’esercito relazioni pericolose”
In realtà la portata sembrerebbe limitata a pochi casi documentati. Un cv, per esempio, proverebbe come una persona abbia simultaneamente ricoperto una posizione in Huawei e un ruolo di insegnamento e ricerca in un’università militare per l’esercito cinese. Secondo Balding, costui sarebbe in realtà un dipendente della divisione dell’esercito che si occupa di strumenti e infrastrutture per la cyberguerra. Un altro curriculum descriverebbe un individuo al contempo impiegato dal colosso ma in realtà rappresentante di un ente governativo attivo nello spionaggio e nel controspionaggio. Sarebbe stato responsabile dello studio di tecnologie e software in grado di sottrarre dati da installare all’interno dei prodotti Huawei. Insomma, nonostante il termine backdoor non esca mai dai cv analizzati, per il ricercatore ce ne sarebbe abbastanza per preoccuparsi considerando “la relazione fra Huawei, l’Esercito popolare di liberazione e la raccolta delle informazioni”.
La replica di Huawei
La risposta di Huawei non si è fatta attendere. Sui tre cv usati nel paper, anonimizzati dal ricercatore, il colosso dice di non essere in grado di effettuare delle verifiche e di “non poter confermare la veridicità di tutte le informazioni pubblicate online” evidentemente relative ai suoi dipendenti. Aggiungendo che il gruppo “segue policy molto rigide sull’assunzione dei candidati con trascorsi nel governo o nell’apparato militare. Nel corso della selezione questi candidati devono fornire documentazione comprovante il fatto che abbiano concluso il loro rapporto con gli enti” per cui lavoravano. Inoltre, vengono anche condotte delle verifiche sul passato dei dipendenti e forniti addestramenti preassunzione per quelli che si occuperanno di reti e dati degli utenti.
“Accogliamo rapporti basati sui fatti e professionali rispetto alla trasparenza di Huawei – ha concluso un portavoce – speriamo che ogni futura indagine contenga meno congetture nel tracciare le proprie conclusioni ed eviti così tanti passaggi, frutto solo di speculazione, rispetto a ciò che il professor Balding ‘creda’, ‘riferisca’ e ‘non possa escludere’”.
Già il mese scorso Bloomberg aveva tentato di avvalorare una simile tesi, spiegando come alcuni impiegati dell’azienda cinese avessero collaborato con personale dell’esercito su almeno dieci diversi progetti di ricerca. I temi erano i più diversi: dall’uso dell’intelligenza artificiale per l’identificazione delle emozioni nei videocommenti online fino all’analisi delle immagini satellitari. La prova della collaborazione nei crediti elencati nel database di ricerche accademiche Cnki.net.
Simone Cosimi, Repubblica.it