Due pensioni di uguale importo. La prima frutto di contributi versati durante l’attività di lavoro. La seconda interamente o in parte assistenziale, perché l’anziano prende la «pensione di cittadinanza». Entrambe assegnate a persone che non hanno altri redditi. Sulla prima, però, il pensionato paga le tasse sulla seconda no. Una disparità di trattamento priva di giustificazioni evidenziata in uno studio del Servizio politiche fiscali e previdenziali della Uil.
«La pensione di cittadinanza – dice il segretario confederale Domenico Proietti – priva di una curva di salvaguardia, fa sì che un pensionato che percepisca un assegno frutto di anni di contribuzione disponga, al netto delle tasse, di un reddito inferiore del 6% rispetto a un anziano che beneficia della pensione di cittadinanza. Una distorsione che penalizza chi ha versato di più». Vediamo perché con un esempio illustrato nello studio. Prendiamo il caso di un pensionato single con una pensione di 9.360 euro lordi annui. Questa persona, anche se non ha altri redditi, è soggetta all’aliquota Irpef, comprese le addizionali locali, e versa al fisco, secondo i calcoli della Uil, 595 euro di imposta. Il suo reddito netto diventa quindi di 8.765 euro. Un altro anziano, invece, ha come unico reddito sempre 9.360 euro, ma esso è la somma di una pensione che non supera la no tax area (un po’ più di 8mila euro) e per il resto della «pensione di cittadinanza», che è per legge esentasse. In questo caso, quindi, non sono dovute imposte e il pensionato ritrova con un 6,35% di reddito disponibile in più.
Questa distorsione arriva dopo un’altra già denunciata dal sindacato, che vede una forte sperequazione di trattamento a parità di reddito lavorativo tra un dipendente e una partita Iva, dopo l’introduzione della flat tax (aliquota del 15% fino a 65 mila euro di ricavi). Per esempio, un dipendente con 35mila euro lordi paga circa 9.400 euro di Irpef mentre un autonomo 5.250 euro, cioè il 44% in meno. Insomma, la giungla fiscale prolifera.
Enrico Marro, Corriere.it